Tassare i robot non risolverà nulla
Nei prossimi anni lo sviluppo dell'intelligenza artificiale porterà gli automi a sostituire gli uomini in molte professioni, anche intellettuali. Ma se è vero che il problema della disoccupazione tecnologica ci interesserà sempre di più, introdurre una gabella è inutile
Robot che sostituiscono baristi, infermieri, operatori di call center, ingegneri, persino giornalisti. La quarta rivoluzione industriale è anche questo: le macchine non si limitano più a rimpiazzare gli operai tra le mura della tradizionale fabbrica novecentesca ma arrivano ormai a concorrere con gli umani nella esecuzione di mansioni sempre più complesse e diversificate.
Stando a una ricerca dell’Università di Oxford, nell’arco dei prossimi dieci anni gli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale potrebbero favorire la sostituzione di lavoratori con macchine in quasi la metà dei settori dell’economia. Per l’Ocse il fenomeno non dovrebbe preoccuparci troppo dato che, in media, solo il nove percento dei lavori in ciascun settore sarebbe effettivamente automatizzabile. Ciò nonostante, sembra ormai diffuso il timore che un esercito di robot si stia apprestando a rubare il posto a un numero crescente di lavoratori. Nell’opinione pubblica si rafforza il convincimento che occorra far qualcosa per cercare di governare il processo.
Una proposta, in questo senso, l’ha avanzata Bill Gates, che in una recente intervista si è dichiarato favorevole all’introduzione di una tassa sull’impiego dei robot. Per il fondatore di Microsoft, l’istituzione di una “robotax” potrebbe rallentare l’adozione di quelle tecnologie che rendono superfluo il lavoro umano, e aiuterebbe pure a finanziare un fondo di tutela per i lavoratori licenziati a causa dell’automazione.
I grandi media economico-finanziari hanno bollato l’idea di Gates come una tipica, retriva manifestazione di “luddismo”. Il riferimento è a Ned Ludd, il leggendario leader del movimento di protesta che ai primi del XIX secolo distruggeva i telai meccanici nel disperato tentativo di frenare l’espulsione di manodopera dal settore tessile. Secondo l’Economist, Gates insiste sul fatto che le innovazioni accrescono la produttività di ciascun lavoratore e consentono quindi di realizzare lo stesso volume di produzione con un minor numero di occupati, ma al pari degli antichi luddisti egli dimentica che in un regime di libero mercato i processi di automazione favoriscono l’abbattimento dei costi di produzione e dei prezzi.
La riduzione dei prezzi dovrebbe favorire l’espansione della domanda, della produzione e dell’occupazione, e dovrebbe quindi complessivamente garantire il riassorbimento dei lavoratori precedentemente espulsi dalle macchine. Per l’Economist e le altre grandi testate finanziarie, dunque, le rivoluzioni tecnologiche non arrecano danni all’occupazione: i lavoratori spiazzati dall’automazione troveranno sempre nuove collocazioni nel processo produttivo, purché i meccanismi di mercato siano lasciati liberi di operare.
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Questa visione così ottimistica del progresso tecnico non raccoglie in verità molti consensi tra gli esperti in materia. Numerosi economisti segnalano che i cambiamenti tecnici accrescono i profitti ma non è detto che aumentino il totale dei salari distribuiti, dal momento che possono dar luogo ad aumenti non trascurabili della disoccupazione. Sostenuta nei secoli scorsi da David Ricardo e da Karl Marx, questa tesi è stata condivisa in anni più recenti da svariati premi Nobel e viene oggi difesa da Paul Krugman, il quale ha dichiarato di provare empatia verso le paure degli odierni luddisti.
Recenti analisi empiriche suggeriscono, in effetti, che le innovazioni risparmiatrici di lavoro possono essere associate a fenomeni di disoccupazione tecnologica: stando alle evidenze disponibili, molti lavoratori sostituiti dall’automazione incontrano reali difficoltà di reimpiego, che talvolta possono durare alcuni anni.
La minaccia della disoccupazione tecnologica è dunque reale, e i meccanismi di mercato non sembrano in grado di scongiurarla. Ciò non significa, tuttavia, che misure come la “robotax” rappresentino gli strumenti ideali per affrontarla. L’adozione di una piccola tassa sulle automazioni che risparmiano lavoro umano servirebbe a poco dal punto di vista del finanziamento del welfare a tutela degli espulsi dalla produzione. Imporre una tassa più cospicua, d’altro canto, sarebbe un po’ come mettere in catene Prometeo: il ritmo dell’innovazione tecnologica e la crescita della produttività del lavoro diminuirebbero, e questo non sarebbe un esito auspicabile. Il punto da comprendere è che un secolo di innovazioni ci ha permesso di aumentare la produttività oraria dei lavoratori industriali di oltre cinque volte.
Questo meraviglioso risultato dell’ingegno umano sta a indicare che la tecnologia ci consente oggi di produrre di più e meglio, e potrebbe anche permetterci di creare ricchezza con meno sforzo e con maggiore libertà. Una tassa che rallentasse questo sacrosanto processo di emancipazione umana sarebbe un errore. Sebbene i timori di Gates e degli odierni luddisti siano fondati, le soluzioni che essi propongono sono sbagliate.
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Il vero problema è che in un sistema guidato dalle sole forze del mercato lo spostamento in avanti della frontiera scientifica e tecnologica si tramuta pressoché esclusivamente in profitti e rendite. L’esigenza del nostro tempo, allora, non è quella di ostacolare le innovazioni che risparmiano lavoro ma consiste piuttosto nell’individuare criteri che consentano di distribuire sull’intera collettività gli enormi benefici potenziali di tali cambiamenti tecnici. C’è chi propone, a tale scopo, l’erogazione di un reddito di cittadinanza. Ma esistono anche rimedi più avanzati, ispirati alle intuizioni di John Maynard Keynes, Wassily Leontief ed altri.
Ogni innovazione che accresca la produttività dovrebbe essere accompagnata da una espressa politica di redistribuzione dei frutti del progresso tecnico. Il reinserimento nel processo produttivo dei lavoratori sostituiti dalle automazioni non avverrebbe grazie a improbabili meccanismi di mercato ma sarebbe piuttosto l’esito di un piano, fondato su due pilastri: la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario e soprattutto il finanziamento pubblico di quelle attività che il meccanismo capitalistico lasciato a sé stesso non è in grado di sviluppare, dalla ricerca scientifica di base alla creazione di infrastrutture materiali e immateriali, alla cura delle persone e del territorio. Naturalmente, nulla esclude che l’aumento della spesa pubblica per la produzione di questi beni collettivi possa essere accompagnato da un aumento dell’imposizione fiscale, ma dovrebbe trattarsi di un prelievo generale sui profitti e sulle rendite, non certo di una mera “robotax” sulle innovazioni tecniche.