Oggi il fortino è occupato da un gruppo di giovani giornalisti che hanno trasformato l’appartamento confiscato al camorrista nella redazione di Radio Siani, intitolata al cronista del Mattino, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985, sette anni dopo l’esecuzione di Peppino Impastato, che a Cinisi, nel Palermitano, denunciava attraverso i microfoni di Radio Aut gli affari dei boss del suo paese, lottando fino alla fine dei suoi giorni contro la politica collusa con la mafia che si era fatta impresa. La morte di Peppino però non ha significato la fine, ma l’inizio di una lotta alle cosche fatta sul campo, attraverso l’informazione. Informare per offrire al cittadino gli strumenti necessari a scegliere liberamente, a conoscere. Da uomo libero, consapevole. Il giornalismo al servizio del territorio, racconto del reale fatto di intrecci e malaffare, di accordi sotto banco e colate di cemento sulla natura incontaminata.

Oggi l’eredità di Radio Aut e dei compagni di Peppino rivive in decine di esperienze, dalla Sicilia alla Pianura Padana passando per la Campania con Radio Siani, alla redazione televisiva e radiofonica di Trm a Palermo, in amministrazione giudiziaria perché sotto sequestro per mafia, riempie notiziari e palinsesti con speciali tv contro le cosche siciliane; il collettivo di studenti di Reggio Emilia che con video inchieste racconta il lato oscuro dell’Emilia. Storie diverse, legate, però, dalla medesima passione, la stessa che ha guidato Peppino con Radio Aut nella giungla di Mafiopoli.
Hanno infranto il muro di omertà a Ercolano i giornalisti di Radio Siani. Per loro ricordare Peppino Impastato vuol dire dare valore a quella che un tempo veniva chiamata controinformazione. La denuncia, cioè, del sistema di potere criminale, spesso ignorato o, peggio, accettato dall’informazione mainstream. Nella casa che fu del boss Birra hanno lo studio della web-radio. Il nucleo del collettivo è fatto da una ventina di persone, non c’è un direttore e le riunioni di redazioni avvengono tra pari, senza alcuna gerarchia.
La prima messa in onda è del 2009, in diretta dalla piazza del paese durante la grande manifestazione antiracket che ha sancito la primavera contro il pizzo di Ercolano. Imprenditori e commercianti uniti nella denuncia delle estorsioni, una rivolta dal basso che ha portato a centinaia di arresti e decine di processi. I ragazzi di Radio Siani sono figli di quella stagione, avevano poco più di vent’anni e oggi volontariamente proseguono su questa strada, nonostante le pesanti intimidazioni subite.
Da qualche tempo gestiscono anche un terreno confiscato alla camorra, sempre a Ercolano, dove presto cresceranno i pregiati pomodori del piennolo, tipicità slow food del Vesuvio. Hanno così fondato una cooperativa che, tra le altre cose, accoglie i minori a rischio segnalati dal tribunale dei minorenni. Il lavoro della cooperativa sta dando i primi frutti, non solo in termini di prodotti. Tra i ragazzini che hanno partecipato alle attività della coop anche uno della paranza di Ponticelli, la gang di giovanissimi che con le scorribande armate ha terrorizzato un intero quartiere di Napoli.

«Un giorno questo ragazzo, guardando il murales di Paolo Borsellino sul muro della redazione, mi ha detto: “Quel giudice è morto per noi, io invece ho sbagliato tutto”», racconta Giuseppe Scognamiglio il fondatore della radio, che chiosa: «Sono piccoli segnali, che danno senso al nostro impegno quotidiano». Scognamiglio ci guida nei corridoi della redazione, sui muri i segni lasciati da chi è passato per dare un contributo: studenti, giornalisti, artisti, intellettuali, cantanti, magistrati, sindacalisti. «Abbiamo scelto di fondare una web-radio perché in sintonia con l’esperienza di Peppino Impastato e di radio Aut, ma anche perché la camorra proprio qui a Ercolano aveva una sua emittente, che veicolava messaggi dentro e fuori il carcere». I giornalisti di Radio Siani dedicano ampio spazio agli approfondimenti. Presto manderanno in onda uno speciale sui processi contro gli estorsori degli imprenditori di Ercolano. Verranno pubblicate le coraggiose testimonianze delle vittime che hanno fatto nomi e cognomi dei boss. Tuttavia dopo tanti anni di attività la radio è a un bivio.
«Per continuare a offrire contenuti di qualità è necessario trovare risorse che fino a oggi sono mancate. Ci siamo ingranditi e non è più possibile andare avanti con il volontariato. Per questo abbiamo scommesso molto sulla cooperativa agricola, vorremmo investire quei ricavi nel nostro percorso editoriale». Radio Siani è però innanzitutto un modo di intendere l’antimafia in maniera differente. «La lotta ai clan la fanno i collettivi, non l’individuo, il singolo che veste il mantello dell’ eroe. Questo è per noi l’insegnamento lasciato ai posteri dai sindacalisti siciliani uccisi da Cosa nostra, dal Pci di Pio La Torre e dallo stesso Peppino Impastato con radio Aut».
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Impastato è stato assassinato il 9 maggio 1978, lo stesso giorno di Aldo Moro, momenti bui per la Repubblica, anni in cui la parola mafia non era consentito pronunciarla. L’omertà faceva da scudo a Cosa nostra e ai sui potenti protettori. L’ordine di uccidere Peppino è partito dal padrino Tano Badalamenti, capo di Cosa nostra e di Cinisi. Politico, militante, poeta, difficile imbrigliare Peppino in un ruolo ben definito. Di certo ha lasciato un’eredità sterminata, i semi delle sue battaglie hanno prodotto i germogli di un’antimafia che non aveva bisogno né di denaro pubblico né di etichette. Un’antimafia fatta di denunce, indagini sul campo, di difesa del territorio dalle speculazioni, di rivendicazione dei diritti sociali contrapposti alla società del favore e delle clientele, instaurata da cosche e politica collusa. Peppino e i suoi compagni hanno affrontato il potere mafioso come collettivo, che con la creazione di Radio Aut ha ridicolizzato il monolite criminale fino ad allora ritenuto inscalfibile.
“Benvenuti a Mafiopoli”, “Don Tano Seduto di Mafiopoli”, Peppino dai microfoni di Radio Aut si prendeva gioco del boss Badalamenti, lo scherniva davanti al paese e nello stesso tempo denunciava gli accordi per gli appalti tra politici e cosche. A quarant’anni dall’esecuzione mafiosa di Cinisi, le minacce e le intimidazioni nel nostro Paese nei confronti dell’informazione sono in aumento. E l’arroganza dei sistemi mafiosi miete vittime anche all’estero, nella grande Europa civile e democratica, cieca di fronte al radicamento delle organizzazioni mafiose in quei territori. Sono lì a ricordarcelo i corpi dei colleghi caduti a Malta e in Slovacchia. Daphne Caruana Galizia e Ján Kuciak, che, come Peppino nella sua Cinisi, cercavano solo di raccontare quello che accadeva intorno a loro. È triste, tuttavia, prendere atto del fatto che anche di fronte all’assedio cui è sottoposta la libertà di espressione, la categoria dei giornalisti è lacerata da invidie ed egoismi. L’esatto opposto del messaggio lasciato da Impastato ai posteri: il valore dell’unità, del noi e non dell’Io.
«Peppino è vivo e lotta insieme a noi», ripetono ancora oggi molti studenti nelle scuole e nelle università italiane. La storia di Peppino non è la parabola dell’eroe votato al sacrificio, è il racconto di una generazione che al Sud ha messo in discussione regole che sembravano eterne. E sono tanti i cronisti di provincia che ogni giorno vivono nella paura, intimoriti ma non piegati dall’arroganza dei clan. L’informazione sul territorio fa paura ai padrini perché li smaschera davanti ai propri sudditi.

C’è per esempio una televisione in Sicilia che fa parte di un piccolo gruppo editoriale, con una storia particolare, unica nel panorama nazionale. Trm è un’emittente regionale. Nel 2015 la società editrice finisce sotto sequestro su richiesta dell’antimafia del capoluogo siciliano che avvia un’indagine sui proprietari. Il giudice dispone l’amministrazione giudiziaria. È l’unica società editoriale in Italia ad essere sottoposta a sequestro. Così con l’ingresso dello Stato l’emittente cambia pelle. Viene nominato direttore editoriale il giornalista Wlady Pantaleone che coordina il lavoro dei colleghi in collaborazione con il direttore della testata, Luigi Perollo. E così mostrano ogni giorno ai telespettatori il loro valore, sperimentando speciali contro la mafia che prima era difficile vedere in onda.
«Abbiamo cercato di innovare il palinsesto», spiega all’Espresso Pantaleone, «migliorando l’offerta informativa e non solo. Per esempio abbiamo cambiato le fasce orarie dei tg, ma anche proposto un cinema di qualità e non più solo commedie all’italiana. Una delle nostre prime rassegne ha avuto come tema proprio la mafia: abbiamo trasmesso “I Cento passi”, “100 giorni a Palermo” e tante altre pellicole. Per un’emittente locale una sfida enorme. A maggio inizierà una nuova rassegna dal titolo “Resistenze”, film di registi siciliani che con il loro lavoro resistono diffondendo cultura. La filosofia alla base di questa nuova fase di Trm è che nel momento in cui l’amministratore della tv è il Tribunale allora è giusto che la realtà privata organizzi il lavoro anche in un’ottica di servizio pubblico». I risultati sono sorprendenti: con la vecchia gestione finita sotto inchiesta Trm era al quinto posto per ascolti, oggi si piazza tra il secondo e il terzo posto. In redazione lavorano 4 giornalisti con contratti a tempo indeterminato e 6 collaboratori.
L’editoriale del direttore Perollo ha lasciato il segno all’indomani della morte di Salvatore Riina, perché ha dettato senza timore la linea della tv, prendendo una posizione netta sulle polemiche innescate dalla primogenita del capo di Cosa nostra. «Non ci ricordiamo i commenti da parte della famiglia Riina di fronte ai lutti causati dalla mafia», ha scandito in diretta Perollo, con alle spalle un cartello “la mafia fa schifo”. Per poi aggiungere: «Tra le categorie che hanno versato più sangue ci sono proprio i giornalisti. Facciamo così... rispettiamo il dolore della famiglia Riina, però chiediamo a Maria Concetta (la primogenita che ha annunciato di voler denunciare i giornalisti invadenti ndr) di dire pubblicamente che la mafia fa schifo. E poi, cara signora Riina, quasi 50 anni tra latitanza e carcere duro non è proprio il massimo per un padre».
Perollo il 2 maggio riceverà a Palermo la menzione speciale del “premio Mario Francese”, il cronista ucciso nel 1976 dai corleonesi. È un riconoscimento alla squadra di Trm. «A 40 anni dall’uccisione di Impastato c’è ancora molta strada da fare», aggiunge Pantaleone, «innanzitutto tutelare tutti quei colleghi che scrivono per pochi euro e rischiano la vita. E poi raccontare il fenomeno mafioso oltre le celebrazioni. Puntare, insomma, sulla narrazione quotidiana dei territori. Come faceva Peppino Impastato, appunto».
Ma l’eredità di Radio Aut e di Impastato è stata raccolta anche nel cuore della Pianura Padana. Nel 2009 un gruppo di studenti di Reggio Emilia fonda un collettivo, Cortocircuito. Iniziano con un giornalino che fa il giro di una dozzina di scuole. Non un giornalino qualsiasi, il foglio va oltre il resoconto delle attività scolastiche. Gli studenti-giornalisti si pongono delle domande, sono curiosi e iniziano a indagare sulla presenza della ’ndrangheta in città e provincia. Così producono la prima loro inchiesta, partendo da una semplice domanda: chi sono i titolari della discoteca dove gli studenti organizzano ogni anno le feste scolastiche di fine anno? Ebbene, scoprono che i proprietari hanno legami con i clan calabro-emiliani. È solo l’inizio, il collettivo si arma di telecamera e inizia a pubblicare sul web numerose indagini giornalistiche. Una in particolare farà il giro del Paese, quella sul Comune di Brescello. La docu-inchiesta porterà allo scioglimento del municipio di Peppone e don Camillo per infiltrazioni mafiose.
«Le celebrazioni sono spesso infarcite di retorica», riflette Elia Minari, il volto più noto del collettivo, «per ricordare Impastato è più utile portare avanti il suo lavoro, scandagliare la realtà in cui viviamo, illuminare i territori». A Minari è stato assegnato il premio Francese “giovani”.
Dalla Sicilia all’Emilia, nell’Italia unita dalle mafie, la voce di Peppino riecheggia ancora. Perché il tritolo, è vero, lo ha ucciso, ma non ha sradicato le sue idee. Rivivono in decine di esperienze collettive. Che resistono in quest’epoca in cui il giornalismo è sotto attacco dei poteri criminali. «Dai ragazzi, la mafia si può sconfiggere», ripete nelle scuole Giovanni Impastato, il fratello di Peppino. Forza, dunque, ancora cento passi.