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La persistenza della tradizione è uno degli elementi più identificanti delle culture asiatiche e la Birmania ne è un esempio perfetto. La modernità - che fosse quella del vecchio colonialismo britannico o che sia ora il neocolonialismo cinese - non è mai stata altro che una patina di vernice, facilmente rimovibile. Per questo oggi sotto le immagini patinate della globalizzazione si può trovare ancora l’animismo.
E le sorridenti ragazze birmane che ora sono in tutti i media le icone di ciò che è cool, in realtà sono figlie di contadini con la schiena piegata sui campi. Però non conta ciò che si è davvero: conta apparire “altro”. Conta la pura rappresentazione di sé. Ma questa non è una peculiarità esclusiva del nostro tempo, perché accadeva già cent’anni fa.
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Basta osservare i fantasmi silenziosi che popolano le fotografie - rare e preziose - pubblicate in queste pagine dall’Espresso. Sono tratte dal Myanmar Photo Archive di Lukas Birk, un artista austriaco che ha vissuto in vari Paesi asiatici raccogliendo giacimenti culturali di molte migliaia di immagini (foto professionali e amatoriali, cartoline, negativi, eccetera) attraverso le quali documentare storia e costumi dei popoli considerati.
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Fra questi c’era un italiano ben noto agli storici: Felice Beato, uno spericolato fotografo che dopo avere documentato la grande rivolta indiana contro il colonialismo inglese nel 1857, la seconda Guerra dell’Oppio in Cina, il Giappone dei samurai e delle geisha a Edo (l’odierna Tokyo), nel 1896 aprì uno studio fotografico in Birmania con una sede a Mandalay e una a Rangoon (l’odierna Yangon). Numerosi birmani lo imitarono nei decenni successivi.
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Non a caso, dunque, molti degli scatti raccolti nell’Archivio Birmano di Lukas Birk sono ritratti eseguiti in studi fotografici di Mandalay e Rangoon. La fotografia aveva infatti conquistato la fantasia popolare; soprattutto i figli dell’élite birmana - l’aristocrazia e la nascente borghesia - impararono a servirsi degli studi fotografici nei primi decenni del ’900 per dare di sé un’immagine “moderna”, cioè per imitare le mode e le pose dei colonialisti britannici. Con effetti a volte surreali. Perché in realtà, fra i colonialisti che avrebbero dovuto essere «un modello per gli indigeni» (così diceva la propaganda britannica) a ben vedere c’erano molti personaggi improbabili.
Uno di loro era il capitano Herbert Reginald Robinson, che negli anni Venti del ’900 fece scandalo guadagnandosi la nomea di «più riprovevole inglese di Mandalay» perché, lasciato l’esercito, divenne oppiomane e, per qualche tempo, monaco buddhista.
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Grande amico a Mandalay del riprovevole ex capitano Robinson era un altro colonialista improbabile: si chiamava Eric Arthur Blair ma divenne famoso più tardi con il suo nome d’arte, George Orwell, lo pseudonimo con cui firmò capolavori come “1984” e “La fattoria degli animali”. Il grande scrittore era nato in India da una famiglia con lunghe tradizioni nell’esercito coloniale per cui a 22 anni si ritrovò arruolato in Birmania nella polizia imperiale. Visse a Mandalay, un centro spirituale che all’epoca era un sogno scolpito nella pietra, con le sue centinaia di pagode fra cui il “Tempio del Libro più grande del mondo” (custodisce tutt’oggi il Canone Buddhista inciso su 729 lastre di marmo bianco in altrettante candide cappelle, e per leggerlo tutto ci vogliono 450 giorni).
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Nonostante il fascino di Mandalay, però, il giovane Orwell detestò non solo la città ma la Birmania, l’Impero, il colonialismo britannico e soprattutto se stesso per essere lì. Così, dopo cinque anni si dimise dalla polizia, tornò in Inghilterra e cominciò la sua vita da scrittore. Nel 1934 avrebbe rievocato la propria esperienza in un romanzo autobiografico intitolato appunto “Giorni in Birmania”. La sua storia, il suo ambiente e il suo tempo sono ora ricostruiti da Emma Larkin in un libro appena pubblicato: “Sulle tracce di George Orwell in Birmania” (Add Editore).
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La Seconda guerra mondiale portò in seguito l’occupazione del Paese da parte dei giapponesi, i bombardamenti di tutti contro tutti (col grande risultato di distruggere il centro storico di Mandalay) e poi il ritorno degli imperiali britannici con una divisione di soldati africani, fra i quali figuravano il nonno del futuro presidente americano Barack Obama e anche il futuro dittatore dell’Uganda, Idi Amin Dada.
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Dopo la guerra, la Birmania conquistò finalmente l’indipendenza dagli inglesi e una breve democrazia grazie al generale Aung San, fondatore del partito comunista birmano poi convertitosi alla socialdemocrazia. Aung San era ed è venerato come “padre della patria” ma era anche il padre di Aung San Suu Kyi, la futura Premio Nobel per la Pace. “Burmese Photographers”, il libro di Lukas Birk, ce lo mostra giovane, sorridente e deciso in una foto del 1947: non sapeva che di lì a pochi mesi i suoi avversari politici lo avrebbero assassinato.
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Fu, quella, un’epoca ricca di speranze e di opportunità che pu rtroppo vennero sprecate. In un reportage (oggi contenuto nel suo libro “In Asia”) il grande giornalista Tiziano Terzani ricordava che subito dopo l’indipendenza la Birmania era «fra i Paesi con le maggiori possibilità di mettersi al passo con il resto del mondo», perché possedeva petrolio, gas e pietre preziose, aveva un’amministrazione efficiente, un sistema commerciale competitivo e «Rangoon aveva le migliori librerie, i migliori alberghi dell’Asia e un’ottima università». Ma il tentativo di modernizzazione da parte di un governo democratico fu bruscamente stroncato dal colpo di Stato compiuto nel 1962 dal generale Ne Win. Era l’inizio del tristemente famoso “socialismo alla birmana”, che avrebbe portato a decenni di dittatura militare.
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Capaci di sopravvivere a tutto, però, i birmani non smisero di frequentare gli studi fotografici, qualche audace facendosi addirittura ritrarre vestito da Elvis Presley, nonostante il rifiuto della «decadente cultura occidentale» condannata dal regime dei generali.
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Così, “Burmese Photographers” ci rivela, come una macchina del tempo, un secolo di modelli di modernità a cui i birmani si sono adeguati nel corso della loro storia. Sempre con formale entusiasmo. Nel senso letterale: hanno cercato di diventare la “forma” della modernità, incarnando per pochi minuti, nello studio di un fotografo, un modello dell’ideologia vincente in quel momento. Come attori teatrali calati in un ruolo, quello culturalmente egemone quando la foto venne scattata.
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Oggi però noi, che sappiamo quanto persistente sia la tradizione in Birmania, di fronte a queste immagini possiamo chiederci che cosa resti di tutti questi tentativi di imperfetta modernità. I protagonisti delle foto ci appaiono come fantasmi sognanti, ritornati per un attimo da un passato che non passa. O forse sono dei Nat: eterni spiriti che fanno funzionare gli stereo e tutto quanto il resto.