Due studiosi italiani di sinistra pubblicano un saggio per contestare il premio: è troppo influenzato dall'egemonia del potere e va soltanto a chi difende il capitalismo finanziario
Abolire il controverso premio Nobel per l’economia? Da questo interrogativo parte “Il discorso del potere”, il nuovo
libro dell’economista Emiliano Brancaccio, scritto assieme a Giacomo Bracci e appena pubblicato dal Saggiatore.
Interprete moderno di Marx e di Keynes, Brancaccio ingaggia da tempo dispute intellettuali con esponenti di alto rango del pensiero economico dominante, dall’ex capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard all’ex premier Mario Monti, fautori di un’ortodossia teorica che viene quasi sempre premiata a Stoccolma benché si sia spesso rivelata fallace nelle previsioni e venefica nelle politiche suggerite.
Brancaccio e Bracci precisano però che abolire il Nobel per l’economia non è un’idea particolarmente eterodossa.
La proposta ha sempre avuto estimatori influenti, persino tra gli stessi vincitori del premio. Il liberista
Friedrich von Hayek, tra questi, temeva per esempio che il premio fosse troppo pericoloso poiché a suo dire avrebbe potuto dare lustro a degli agitatori di idee minacciose, al limite desiderosi di fomentare una rivoluzione socialista.
In realtà, leggendo il libro, si scopre che tra i vincitori del Nobel per l’economia
si trovano ben pochi sovversivi. Piuttosto, sono molti gli studiosi premiati che hanno eretto barriere intellettuali
in difesa del capitalismo finanziario e delle politiche liberiste che lo hanno sostenuto.
Tra questi c’è
Edward Prescott, le cui teorie avallano l’idea alquanto bizzarra che la disoccupazione di massa sia solo il frutto di una scelta “volontaria” dei lavoratori. Oppure
Eugene Fama, che all’indomani della grande recessione arrivò a sostenere che il mercato finanziario non può essere considerato una causa della crisi ma al contrario dovrebbe essere visto come una sua “vittima”. O
Angus Deaton, secondo il quale le disuguaglianze causate dai meccanismi del libero mercato rappresentano un carburante necessario per favorire lo sviluppo economico. Perfino
Paul Krugman, che oggi è considerato un critico severo del liberismo, è stato insignito del premio Nobel anche grazie a una sua vecchia teoria che esonerava gli speculatori da ogni responsabilità in merito alle crisi monetarie.
Tutto questo indica che l’economia è troppo condizionata dagli interessi prevalenti e che per questo il suo premio più rappresentativo tende a onorare solo i fautori di politiche favorevoli al potere costituito? La risposta di Brancaccio e Bracci è rigorosa e non scontata. In estrema sintesi, da un lato essi difendono l’idea dell’economia come scienza e criticano i tentativi di squalificarla rispetto alle altre discipline scientifiche. Dall’altro, riconoscono che
l’economia contribuisce a forgiare “il discorso del potere” e per questo risulta da esso particolarmente influenzata. Questa inevitabile simbiosi col potere rende la scienza economica fragile, perché limita la libera competizione delle idee e quindi frena il suo stesso progresso scientifico.
Il libro ci ricorda, non a caso, che uno studioso eretico come
Wassily Leontief riuscì a vincere il Nobel solo dopo avere dichiarato che le sue teorie potevano risultare in fondo compatibili con la teoria dominante e che quindi non erano poi tanto sovversive. Un falso conclamato e un’abiura a tutti gli effetti. Un po’ come secoli fa capitò a Galileo.
“
Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica”, di Emiliano Brancaccio con Giacomo Bracci (Il Saggiatore, Milano 2019; 240 pagine, 19 euro).