Badanti, camerieri, muratori: per il lavoro nero il 2020 è un anno d'oro
Crescono i disoccupati, diminuiscono i contratti. Gli irregolari sono oltre tre milioni ma entro dicembre rischiano di aumentare. I nuovi dati dell'Istat lanciano l'allarme su un problema che riguarda tutto il Paese. Però al Nord in ogni famiglia c'è uno stipendio, al Sud invece si bara sul reddito di cittadinanza
di Maurizio Di Fazio
12 ottobre 2020
Una delle ferite destinate ad allargarsi ulteriormente per colpa della lunga emergenza sanitaria. Cittadini di serie b, invisibili e abbandonati, oppure figli di mancate riforme, o di riforme manchevoli. Fantasmi economici, sociali e giuridici che affollano, in perpetuo, il dietro le quinte dell’occupazione all’italiana. Lontani dal fisco e dall’Inps, dai sindacati, dai diritti e dai doveri. Esposti a ricatti, incidenti e infortuni professionali. Sono i lavoratori in nero, protagonisti, in genere loro malgrado, di quel lavoro irregolare (o informale, termine tenero) che sta conoscendo un fortissimo exploit nell’anno del coronavirus.
Lo afferma l’Istat, chiamato in causa dal centro studi della Cgia, associazione artigiani e piccole imprese di Mestre. Entro la fine del 2020, prevedono le proiezioni, circa 3,6 milioni di connazionali rischiano di perdere il posto tra recessione profonda, sblocco dei licenziamenti e stop alla cassa Covid. E una fetta consistente di quest’emorragia di esuberi sarà assorbita dall'economia sommersa. Ci si accontenterà di tutto. Retribuiti male, e di nascosto. Dalla luce del sole alle tenebre dell’incertezza.
Nel Belpaese gli irregolari sono già 3,3 milioni e generano qualcosa come 78,7 miliardi di euro di valore aggiunto sotterraneo. Il 13,1 per cento del totale. Il 38 per cento di loro vive al sud, in particolare in Calabria (21,6 per cento), Campania (19,8) e Sicilia (19,4). «A Palermo il lavoro nero riguarda un lavoratore su tre» ha denunciato Enzo Campo, segretario cittadino della Cgil.
Ma chi sono i lavoratori segreti tricolori? In che settore operano i disoccupati, cassintegrati, pensionati virtuali e doppiolavoristi in black? Predominano «i poco istruiti, i giovani, le donne e i cittadini di altri paesi dell’Unione europea. E lavorano soprattutto nel terziario, perché i diversi rami che lo compongono superano il 75% dell’intera occupazione irregolare, pari a 2 milioni e 500 mila persone», spiega all’Espresso il professor Emilio Reyneri, professore emerito di sociologia del lavoro all’Università di Milano Bicocca. «In primis, c’è il lavoro domestico (un quarto di tutti i lavoratori in nero), seguito da commercio (oltre l’11%), alloggio e ristorazione (8,5%) e le attività professionali (8,5%). Agricoltura, industria manifatturiera e costruzioni oscillano tra 7% e 8% dell’occupazione irregolare. Nel segmento che più alimenta il lavoro nero, i servizi domestici alle famiglie, il tasso di irregolarità sfiora il 60%». Occhio alle sorprese, si fa per dire: «L’incidenza è molto elevata anche nelle attività artistiche e di divertimento, mentre è relativamente modesta nei servizi finanziari e assicurativi». Tutte figure professionali che lavorano senza nessuna registrazione.
Un mucchio selvaggio di «domestiche e badanti, commercianti e artigiani, camerieri e baristi, muratori, braccianti; ma anche musicisti, infermieri, insegnanti a domicilio. Forniscono prestazioni sia alle famiglie che alle micro-imprese, molte delle quali nascono, muoiono e rinascono con gran frequenza per sfuggire a ogni controllo», aggiunge il docente e scrittore, che sta preparando un contributo ad hoc per il prossimo rapporto Cnel. «Durante il lockdown, la domanda per buona parte di queste attività è crollata: si pensi al turismo, alla ristorazione, all’intrattenimento. Ma per altri è cresciuta, come le consegne a domicilio».
C’è poi il tema della spaccatura apparente, quantitativa e qualitativa, tra nord e sud. «Il problema del Mezzogiorno non è tanto una diffusione del lavoro nero particolarmente alta, quanto la scarsissima presenza di quello regolare, soprattutto nell’industria e nei servizi. Il lavoro nero è solo un poco meno diffuso nelle regioni settentrionali e anche lì, quindi, costituisce una difficoltà. Ma se le differenze regionali non sono massicce come si ritiene, altrettanto non può dirsi per l’offerta di lavoro, cioè per le caratteristiche dei lavoratori e delle lavoratrici in nero».
La radiografia-tipo appare infatti radicalmente differente. «Nelle regioni meridionali gli occupati irregolari sono tendenzialmente maschi, in età centrale e capifamiglia, mentre in quelle settentrionali sono per lo più donne, giovani e coniugi. È così probabile», conclude il professor Reyneri «che i lavoratori in nero nel Mezzogiorno siano i soli occupati in famiglia, mentre al nord vivano in nuclei familiari in cui il capofamiglia ha un lavoro regolare».
Si spiega così la maggiore gravità sociale del fenomeno dalle Marche in giù, accentuata dalla più sostenuta presenza di poco alfabetizzati, che rimarca «una maggior dequalificazione delle occasioni di lavoro nero». Modello caporalato, insomma, quando al centro-nord circola pure del “lavoro nero qualificato”. Un ossimoro sì, ma sublimato.
Se allarghiamo invece lo sguardo al palcoscenico europeo, come ha fatto, nei suoi studi, un altro studioso di razza come l’austriaco Friedrich Schneider dell’università di Linz, osserviamo come il lavoro nero metta il turbo e trovi terreno fertile nei paesi più poveri e peggio governati. Senza correlazioni dirette con le tassazioni del lavoro regolare e con i flussi migratori. Anzi, lieviterebbe proprio nelle nazioni dove l’emigrazione prevale sull’immigrazione. Un’osservazione double face, che taglia le unghie ai populisti della politica e dell’economia.
Qualcosa, certo, si muove. Si è da poco conclusa la cosiddetta “sanatoria colf, badanti e braccianti”, procedura di emersione dei rapporti di lavoro irregolare intrapresa a inizio giugno ai sensi del decreto legge del 19 maggio. Sono arrivate 200 mila domande e rotte di regolarizzazione. Mobilitati i comparti dell’agricoltura, del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona.
Ma non basta: la coperta ha lasciato scoperti milioni di addetti, e molte cellule del tessuto lavorativo italiano sono infette da tempo, non basta un provvedimento straordinario, benché incompleto, per rigenerarle. Anche perché si fanno largo pulsioni più estemporanee al radicamento esponenziale del lavoro nero nella nostra penisola.
Prendiamo il reddito di cittadinanza. Le cronache tracimano di casi di percettori del Rdc che, al posto di impegnarsi in lavori di pubblica utilità, foraggiano la manovalanza del lavoro nero. Ci guadagnano tutti, in apparenza: gli assistiti, che potendo contare su un sussidio fisso si accontentano di un salario “extra” scontato, e certi imprenditori machiavellici. Ma chi perde è lo Stato.