Sono due le catene che marchiano la terribile fine di Giulio Regeni. C’è quella di acciaio che lo ha imprigionato, il viso riverso a terra, costretto a sopportare interminabili torture. Mentre le autorità egiziane continuavano a ripetere di ignorare chi fosse. C’è poi la catena delle menzogne e delle omissioni, che hanno cercato di soffocare ogni tentativo di arrivare alla verità. Gli anelli dell’orrore e quelli del depistaggio si intrecciano in un’unica trama, descritta dalla procura di Roma con
l’atto d’accusa che servirà per chiedere il processo contro quattro 007 del Cairo. Generali e colonelli dell’intelligence ritenuti colpevoli del sequestro e dell’omicidio del giovane ricercatore friulano, ma nelle 94 pagine che racchiudono cinque anni di indagini emergono anche i nomi di altri uomini degli apparati egiziani, le responsabilità politiche e istituzionali di una feroce gerarchia del potere che ha continuato a negare l’evidenza. Occultando la ferocia sistematica delle sevizie compiute nella stanza numero 13, quella riservata ai cittadini stranieri sospettati di "attività sovversive".
Non hanno lasciato nulla di intentato per seppellire la verità. Sono ricorsi all’intero campionario di menzogne vecchio stile: far ventilare un movente sessuale dietro l’omicidio o presentare i risultati dell’autopsia come se la morte fosse stata provocata da un incidente stradale. Poi sono passati alle false testimonianze come quella che racconta di una lite davanti al consolato italiano; alla manomissione dei video registrati nella metropolitana la notte della sparizione restituiti, dopo lunghe trattative, frammentati e inutili; poi le celle telefoniche negate perché al Cairo si sa è prioritario tutelare la privacy fino alla brutale messa in scena con l’uccisione di cinque persone e i documenti di Giulio fatti ritrovare nella loro casa per addossare tutto a una banda di rapinatori. Banditi di strada assassinati per coprire un delitto di Stato. Lo stesso scopo perseguito in decine di riunioni, dove alle promesse di collaborazione non seguivano mai i fatti. «Da parte nostra c'è la forte volontà di conseguire risultati definitivi nell'inchiesta sull'omicidio Regeni» aveva assicurato il presidente Al-Sisi. Di più: «Giulio è uno di noi».
Delle 64 richieste dei magistrati italiani meno della metà hanno trovato risposta. Da novembre 2018 gli inquirenti egiziani non hanno più fornito un solo documento. Elementi che avrebbero potuto permettere di identificare altri 13 soggetti appartenenti alla National Security che risultano in contatto con gli indagati. Perché c’è una sola certezza: a costruire questo muro d’omertà non possono essere stati solo quattro appartenenti ai servizi segreti.
Nella tortura come nei depistaggi, loro sono solo l’avanguardia di un sistema di potere.
La procura di Roma ha esaurito il suo compito, ma la politica non può cercare una supplenza trincerandosi dietro al lavoro dei magistrati, come ha fatto il premier Giuseppe Conte nella conferenza stampa da Bruxelles in cui si è complimentato con i pm guidati da Michele Prestipino.
Quello del presidente Abdel Fattah al-Sisi è un regime abituato a stroncare con violenza ogni forma di opposizione e di libertà. Dove un studente egiziano dell’Università di Bologna come Patrick Zaki è ancora chiuso in carcere da febbraio. Dove i diritti umani sono costantemente violati. Un regime che si scaglia su prede indifese e che l’Italia continua a considerare un partner affidabile. Non è un peccato solo di Roma. Nella stanza numero 13 sono state torturate persone di ogni nazionalità, ma l’intera Europa e l’intero Occidente hanno preferito chiudere gli occhi. Come ha fatto il presidente Emmanuel Macron, pronto a smentire i valori della Republique e stendere il tappeto rosso per Al Sisi, premiando con la Gran croce della Legion d’Onore l’uomo che ha fatto segregare e brutalizzare anche cittadini francesi.
A ribellarsi alla realpolitik che diventa umiliazione etica e politica resta solo una società civile ignorata dai partiti, fatta di studenti come Regeni e Zaki. Come Carola Bertone che ha 23 anni e studia a SciencesPo e vive alla Cité Internazionale di Parigi, un campus internazionale che accoglie migliaia di studenti e ricercatori da tutto il mondo. “L’altro giorno il presidente Al Sisi doveva venire qui per porre la prima pietra della nuova residenza egiziana. Alcuni di noi sono scesi per manifestare il proprio dissenso, in forma pacifica e sono stati accerchiati da poliziotti”, racconta amareggiata. Una generazione che crede nei diritti umani e non accetta di vederli trasformati in merce di scambio, barattata con contratti di armamenti e affari petroliferi.
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