Si infiltrano in convegni, incontri e seminari che si svolgono sulle piattaforme digitali. Compiono azioni di disturbo, urlano, insultano, esibiscono i genitali. E no, non fanno ridere per niente

Lo chiamano “zoombombing”, un neologismo dal retrogusto quasi scherzoso: nella forma richiama “photobombing”, la pratica di infiltrarsi nelle foto altrui con risultati spesso esilaranti, specialmente se a farlo è una celebrità. Forse per questo è facile sottovalutarlo, perché di scherzoso, lo zoombombing, non ha proprio niente.

La scena è quella a cui ormai ci siamo abituati, dopo lunghi mesi di didattica a distanza, convegni a distanza, riunioni a distanza, presentazioni a distanza: computer, cuffie con microfono, una luce piazzata strategicamente per illuminare il volto del relatore, e sullo schermo file e file di riquadri che possono o meno contenere nomi e facce. L’atmosfera è sempre quella un po’ goffa e informale di questi incontri in cui quasi tutti i presenti sono in ciabatte, anche quando hanno fatto lo sforzo di rendere presentabile almeno la metà visibile sullo schermo.

La parola
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21/12/2020
Un clima che si guasta in maniera irrimediabile quando alcuni dei partecipanti cominciano a intraprendere azioni di disturbo, dall’esibizione dei genitali a urla, canti, insulti e perfino rutti. L’intervento dei moderatori è spesso vano: l’unico modo per riportare la quiete, a volte, è necessario chiudere l’incontro e riaprirlo con un altro link, selezionando a mano una per una le persone autorizzate a entrare.

Succede su Zoom, ma anche su Microsoft Teams, su Google Meet, o qualunque piattaforma: basta che il link circoli e l’azione di disturbo è garantita. I bersagli privilegiati sono gli incontri in cui si parla di diritti, politica, femminismo, e per estensione - il più delle volte - le donne.

È capitato anche a me, il 2 dicembre 2020, durante un seminario organizzato dall’Università di Perugia, al quale partecipavo insieme a Maura Gancitano, co-fondatrice di Tlon: i primi cinque minuti di riunione sono stati dedicati a espellere vari membri del pubblico, i quali prima ancora che cominciassimo a parlare avevano già deciso che sventolare le loro povere appendici davanti a una webcam era il modo migliore per occupare il tempo. Qualche giorno più tardi, la docente che moderava l’incontro mi ha detto di aver visto anche un uomo che si passava una pistola sul volto guardando in camera. Il tutto condito da insulti sessisti via chat: “Cagna”, “vai in cucina”.

Gli autori di queste azioni possono essere perdigiorno casuali, ma spesso sembrano provenire da gruppi di disturbo organizzati, che vanno alla ricerca di eventi aperti al pubblico e aggirano le (spesso scarse) barriere all’ingresso registrandosi con nomi e e-mail finte solo per impedire o comunque rallentare lo svolgimento dell’evento. Dopo aver raccontato sui social la mia esperienza, mi sono arrivate diverse segnalazioni di episodi analoghi: il denominatore comune è il tema dell’incontro, il genere delle relatrici, o entrambe le cose.

Gli spazi pubblici per il dibattito, il confronto e la formazione su temi sociali sono già piuttosto ristretti, e non solo a causa del Covid. I media tradizionali sono conservatori, e di rado mostrano attenzione alla pluralità di temi e di voci. Gli spazi mainstream sono generalmente occupati da personalità già affermate, in prevalenza maschi bianchi eterosessuali. Seminari e conferenze online sono, al momento, l’unico modo per discutere di idee che già faticavano a trovare spazio al di fuori di ambienti molto ristretti. Insomma, farsi ascoltare – per le donne, soprattutto – era un problema già prima.

L’obiettivo di decide di sabotare un seminario online è ridurre ulteriormente uno spazio già molto risicato. È una tecnica piuttosto efficace, perché mette a repentaglio molte piccole libertà: per esempio quella di avere un pubblico anche casuale, che possa assistere all’incontro e scoprire concetti nuovi e voci nuove, e possa a sua volta interagire in maniera costruttiva con chi parla, stimolando la riflessione.

Una donna che sia sopravvissuta a una violenza sessuale potrebbe anche trovare traumatica l’esibizione di genitali non richiesti, e di conseguenza decidere di non fare ricorso alla modalità interattiva offerta dalle piattaforme di videoconferenza. Insomma, tanto per cambiare finiamo per proteggerci, restringendo i nostri movimenti: la violenza maschile - che sia domestica, fisica, sessuale o verbale - è vissuta come un’inevitabilità.

Più che parlare di come evitare queste azioni, è ora di cominciare a discutere della loro matrice. Smettere di ridurre tutto a stupidità individuale, e domandarci quante volte abbiamo derubricato l’aggressività maschile a “goliardata” e “bravata”, dando per scontato che la mascolinità – intesa come complesso di azioni, scelte e comportamenti tipici del genere maschile – vada bene così com’è, e che sia la femminilità a essere sempre manchevole, bisognosa di aggiustamenti, di nuove difese per sopravvivere, e a ogni discorso che prova a smontarla reagisce con ulteriore aggressività. È ora di farci delle domande su come educhiamo i maschi, e i primi a doversele fare sono gli uomini.