L’istituzione è il padre e la madre. Era finita nel disinteresse, ora deve usare parole di amore e di divieto

conte solo
Chi comanda?

È una domanda sconcertante. Nello sbalordimento dato dalle ordinanze incerte, si pone la questione italiana del potere. Serve, forse, una filosofia dell’istituzione.

Il potere ai tempi del virus è l’invisibile fattosi evidente. Oggi le due specie di potere riguardate da tutto il pianeta sono quella cinese e italiana. Le osserviamo attoniti. Il potere cinese e il potere latino mostrano questa differenza specifica: l’uno si nasconde ed è evidente, l’altro si mostra e nessuno sembra vederlo. Il potere cinese è erede dell’antico mandarinato, il palazzo imperiale è muto al centro della città, ne esce un verbo indecifrabile, il messaggio dell’imperatore è diretto proprio a te, l’istituzione è avvolta dal buio, trasmette il suo morse indiscutibile. L’arte italiana del potere invece media per natura, confonde l’aria, ricompone sfinitamente il suo messaggio. L’autorità è affabile, si giustifica davanti alla massa, si contraddice di ora in ora. L’istituzione, che è la luce dell’uomo, è qui un neon a intermittenza, in Italia non c’è la tenebra da cui sussurra l’invisibile re.

«Non suggerire niente, ma contagiare benevolmente la gente», prescrive il premio Nobel Peter Handke, in un suo titolo che a oggi suona profetico: “Il cinese del dolore”. Il benevolo contagio è il funzionamento stesso del potere, quando si insinua nel codice genetico dei sudditi e li condiziona. Handke, che da scrittore vede l’ambiguità di ogni cosa, definisce anche l’altra faccia del potere, il suo volto visibile e amoroso: «A volte basta mostrarsi per aiutare: per essere di aiuto. Mostrati!».

Diceva un antico cultore delle istituzioni, Francesco Cossiga, che esse vengono uccise dal ridicolo. Oggi l’istituzione muore invece nell’indifferenza che nasce dalla disattenzione. Un sovrano disinteresse: il disinteresse è sovrano. Non è che non si ubbidisca. Si fatica stancamente a farlo, non c’è più l’abitudine allo sforzo della regola comune, anche nell’emergenza. Le generazioni che popolano la città assediata dal virus hanno vissuto concentrate sui diritti, disabituate al coprifuoco, alle bombe, ai comitati di sanità pubblica. Da decenni si vive qui la facilità del reale, la realtà come un diritto. L’economia deve funzionare automaticamente, è un diritto. La popolazione italiana, stremata da decenni di irrealismo spettacolare e catodico e digitale, percepisce con ritardo fatale il pericolo, anzitutto perché non sente più l’istituzione. Tutto il genericismo dell’antipolitica altro non era se non il disinvestimento nei confronti dell’istituzione.

L’istituzione è il padre, l’istituzione è la madre. Se non lo è, è nulla. Essa è materna in quanto abbraccia, è protettiva mentre assorbe ogni figlio, uccidendolo di amore, assimilandolo nel suo corpo immenso. Accanto al fondamento amoroso dell’istituzione, c’è la funzione che separa, che detta il limite e stabilisce la norma - è ciò che nell’istituzione è paterno. Il sogno dell’eroe è quello di essere grande in tutte le cose e piccolo nei confronti di suo padre: è questo il fondamento della carica istituzionale, che è sempre la memoria di un eroismo, con cui la società conduce i suoi figli fuori dallo stato di emergenza. Chi ricopre la carica istituzionale oggi mostra il segno dell’eroe o il timore per il padre? Certamente il padre è temuto e amato dall’istituzione più istituzionale dell’intero occidente, cioè il pontefice. È apparso nel vuoto dello streaming per pronunciare l’Angelus: «È un po’ strana questa preghiera, con il Papa ingabbiato. Ma io vi vedo», dice, e «vi sono vicino», non essendo mai stato così lontano. Dopodiché parla della trasfigurazione, cioè il fondamento di ogni istituzione. Il Padre dice infatti: «Questi è il Figlio mio, l’amato. Ascoltàtelo» - e l’istituzione ha preso vita, non smetterà mai più di parlare. L’istituzione non è l’assoluto, ma è incaricata dall’assoluto, per rappresentare l’amore e il divieto, per pronunciare le parole della salute pubblica: «Alzatevi e non temete». L’istituzione, che richiede trasfigurazione, ci trasfigura.

Ma l’umano è troppo umano e l’italiano è troppo italiano. Se esiste un’inadeguatezza personale a ricoprire la carica istituzionale, ed esiste palesemente, la si misura a questo muro del tempo: chi porta oggi la parola di amore e di divieto nelle nostre case? Ogni gesto che infaustamente mini la forma dell’istituzione ne compromette la sostanza. Quale parola di amore e di divieto, quale eroismo sprigiona dalla diretta social del governatore che indossa la mascherina in tempo reale? La massaia capo dei soviet si ricapitola nell’avvocato capo del governo? Regge invece l’onore e l’onere dell’istituzione chi porta in sé le tracce di quella forma specifica di eroismo, che è il martirio. È uno dei segni precipui della presidenza della Repubblica, spesso incarnata da persone che hanno vissuto il dramma: il partigiano che si incaricò di condannare a morte il duce, il ministro che non riuscì a salvare Moro e imbiancò in pochi giorni, il vedovo cattolicissimo con la figlia orfana, il democratico cristiano che regge il corpo disteso del fratello assassinato. La cicatrice è il segno di verità, l’indice di adeguatezza a rivestire i panni istituzionali.

Chi comanda, dunque? Fuori dall’istituzione, lo vediamo di ora in ora, non c’è nulla e muore la speranza. Se la miseria spirituale è causata non dalle leggi della natura, ma dalle nostre istituzioni, grande è la nostra colpa. Come sarebbe stato bello vedere per una volta uno che ha paura per qualcuno.