«Così nei lab di Moderna corriamo per arrivare al vaccino»
La tecnologia dell’Rna. Gli esperimenti sui topi. Poi gli studi clinici. Parla Andrea Carfi, lo scienziato italiano a capo della ricerca sulle malattie infettive dell'azienda biotech che lo sta testando
Aggiornamento del 19 maggio 2020: questa è l’unica intervista rilasciata da Andrea Carfi, lo scienziato italiano a capo della ricerca sulle malattie infettive dell'azienda biotech americana. Che ieri ha dato l’annuncio al mondo: «Positivo test sui volontari, hanno sviluppato gli anticorpi»
Conducono una battaglia epocale e lottano contro il tempo, in condizioni difficili a causa del lockdown che sta bloccando gran parte del pianeta. Isolati quanto più possibile, i ricercatori di Moderna, la società biotech americana (è basata a Cambridge, Massachusetts, dove è nata dieci anni fa) che per prima ha elaborato un vaccino sperimentale contro il Covid-19, affrontano la sfida più grande.
Il 16 marzo scorso il governo americano tramite il National Institute of Health (il nostro Istituto Superiore di Sanità) ha avviato la fase 1 della sperimentazione sull’uomo del vaccino RNA di Moderna, arruolando 45 volontari, adulti in buona salute, a cui è stato somministrato per via intramuscolare il vaccino per testarne la capacità di indurre una reazione immunitaria contro il virus, valutare i dosaggi e verificarne la sicurezza sotto il profilo della tossicità e tollerabilità.
Serviranno circa sei-otto settimane per elaborare i dati e passare alle fasi successive, ma a Moderna sono cautamente ottimisti e tutti lavorano senza sosta accelerando i processi e riducendo al minimo i tempi per arrivare sia all’approvazione del vaccino che alla sua somministrazione alla popolazione.
A capo del team di ricerca sulle malattie infettive di Moderna c’è Andrea Carfi, italiano di nascita e americano d’adozione, un esperto di virus: li studia dai tempi del suo post-dottorato al Children’s Hospital di Boston dove ha lavorato con grandi scienziati del campo. Dopo la laurea in chimica a Pavia e il dottorato a Grenoble, in Francia, ha scelto gli Stati Uniti e, tranne per una parentesi lavorativa in Italia, da undici anni vive appunto a Cambridge. ? Tutto ha inizio a il 10 gennaio 2020, quando le autorità cinesi hanno condiviso con la comunità scientifica il codice genetico di un nuovo Coronavirus ed è iniziata la sfida, tuttora in corso. Per voi è stata subito chiara la pericolosità del nuovo virus e la necessità di operare in modo del tutto diverso dalla norma? «I dati che arrivavano ogni giorno dalla Cina erano estremamente allarmanti rispetto alla sua diffusione. Ma il virus non era del tutto ignoto. Infatti, grazie all’esperienza pregressa e ai risultati ottenuti in passato su vaccini contro altri virus della stessa famiglia, come per esempio Sars e Mers, e grazie alla collaborazione con il Vrc (Vaccine Research Center, il centro di ricerca sui vaccini del governo americano) siamo arrivati molto rapidamente al disegno del vaccino. In meno di tre settimane abbiamo iniziato studi preclinici, dimostrando che il vaccino funzionava in vitro e abbiamo avviato gli esperimenti nei topi. Dopo solo quarantadue giorni dalla pubblicazione della sequenza siamo stati in grado di inviare il vaccino all’Nih per iniziare gli studi clinici».
Come è stato possibile raggiungere subito questi risultati? «L’utilizzo della tecnologia dell’Rna ha permesso di andare molto rapidamente. L’Rna contiene l’informazione che consente alle cellule di esprimere una proteina d’interesse, in questo caso una proteina del virus, cosi permettendo di generare una risposta immunitaria nella persona a cui viene iniettato. Un grande merito va ai miei colleghi del Technical Development che hanno velocemente adattato processi che usiamo per altre applicazioni contro malattie infettive, a quello dei vaccini. È stato un incredibile tour de force non-stop».
Le autorità sanitarie americane, vista l’emergenza, hanno permesso di entrare rapidamente nella sperimentazione clinica sull’uomo. Come state procedendo? «In questa prima fase l’obiettivo è dimostrare che il vaccino è ben tollerato e non causa effetti collaterali a dosi crescenti. Si potrà anche dimostrare che il vaccino è immunogenico e produce gli effetti desiderati. Si tratta della fase iniziale per poi testare il vaccino in un numero di persone molto più ampio negli studi seguenti. Lavoriamo nell’ottica di ottimizzare ogni secondo di tempo. Valutiamo tutti gli scenari possibili in modo da essere pronti a procedere in tempi rapidissimi. Tutto sempre mantenendo la sicurezza delle persone che partecipano agli studi clinici».
Per portare a termine tutte le fasi studio e test di un nuovo vaccino solitamente servono anni, almeno quattro o cinque. Oggi questo tempo non lo abbiamo. Quando si può realisticamente pensare che il vaccino sia disponibile? «L’obiettivo è di iniziare la fase 2 entro questa primavera e la fase 3 in autunno per arrivare all’approvazione del vaccino nel 2021. Ma data l’emergenza, le autorità regolatorie potrebbero forse autorizzare la somministrazione in via eccezionale anche prima dell’approvazione definitiva, a partire dall’autunno di quest’anno, solo per medici, infermieri e gli operatori sanitari che ogni giorno rischiano il contatto con il virus e poi a seguire le persone anziane».
E per gli altri? «Si sta lavorando su diversi fronti, incluso quella della produzione del vaccino in larga scala, parliamo di milioni di dosi da produrre e somministrare, dopo l’approvazione definitiva».
Quanto può costare il vaccino in termini di ricerca e sperimentazione? «Sviluppare un vaccino è sicuramente molto costoso, sono necessarie diverse fasi per gli studi clinici e devono essere coinvolte migliaia di persone al fine di dimostrare la sicurezza del vaccino e la sua efficacia. In genere si parla di diverse centinaia di milioni di dollari.
Somme ingenti, ma tutto sommato nulla in confronto alle perdite prima di tutto umane e poi economiche che il mondo intero sta sopportando. «L’impatto della pandemia è sotto gli occhi di tutti, prima di tutto in termini di sofferenza, di vite umane perdute, di stress per i sistemi sanitari. Ma ci sono altri aspetti oltre quelli sanitari, i costi sono enormi da tutti i punti di vista. Approcci terapeutici possono sicuramente alleviare la situazione se identificati in tempo. Ma la storia delle malattie infettive ha dimostrato che i vaccini sono l’approccio più efficace e sicuro per sconfiggere il virus, bloccare la pandemia ed evitare di ricadere nella stessa situazione in futuro. Ciò che è successo in Italia, e che sta accadendo in questi giorni in molti altri paesi, ci insegna che bisogna lavorare e investire per essere preparati il più possibile a nuove epidemie, serve un grande impegno per prevenirle e controllarle e serve mettere in piedi sistemi in grado di reagire e rispondere rapidamente all’emergenza. Oggi stiamo imparando, dalle buone pratiche e anche dagli errori, ma dobbiamo assolutamente evitare di ritrovarci in una situazione simile di nuovo nel futuro».
Data la diffusione della pandemia, è ragionevole pensare che benché la curva dei contagi e dei decessi diminuirà grazie alle misure di isolamento e di distanza sociale, l’unico modo per ritornare alla normalità sarà il vaccino? «È sempre difficile prevedere il futuro, la scienza ci prova ma non è in grado di farlo in modo esatto. Personalmente ritengo che il vaccino sia la soluzione più verosimile al problema presente e ai rischi futuri. Non parlo solo del vaccino a cui stiamo lavorando noi, ce ne saranno anche altri che potranno portare il loro contributo ad uscire da questo incubo. Le misure di contenimento e di isolamento sociale, se attuate con rigore e nelle tempistiche giuste possono avere successo come è accaduto in Cina o in Corea del Sud e mi auguro anche in Italia, ma c’è il rischio che il virus ritorni e solo un vaccino usato in larga scala può bloccarlo definitivamente».