Siamo entrati nella Takis di Castel Romano, dove i laboratori biotech confinano con le lamiere e un outlet. Qui si studia e si sperimenta a livelli europei in una cronica carenza di fondi. «Abbiamo ricevuto offerte interessanti per trasferirci all'estero ma vogliamo lavorare in Italia» (Foto di Francesco Pistilli)

takis2-jpeg
Tra la distesa di lamiere dove hanno confinato più di mille rom, si scorgono solo le insegne spente di un outlet e un ottovolante del divertimento che fu. Eppure è in questa landa sgarrupata, in mezzo a buche che si fanno voragini, che potrebbe avverarsi il desiderio di miliardi di persone. A Castel Romano, pochi chilometri a sud della Capitale, sorge un quartier generale della scienza. Laboratori all’avanguardia, biotecnologie e ricercatori che lavorano senza sosta per fermare il virus: il vaccino, la sola arma finale contro l’epidemia, l’unico antidoto che ci può riportare alla normalità. La corsa contro il tempo per realizzarlo è scattata in tutto il mondo.

Fuori c’è il caos della peggiore periferia. Dentro, oltre le spesse porte di un palazzo di cemento, il neon biancastro e gelido illumina beute e provette perfettamente allineate. Le stanze sono pressurizzate negativamente, nulla deve contaminarle. Obbligatorio indossare indumenti di protezione monouso, mascherina, cuffietta, calzari e un doppio paio di guanti. Una catena di montaggio: più turni, a gruppi alterni, e al primo colpo di tosse ci si ferma. Non solo per il timore del Covid-19, perché qui potrebbe bastare un normale raffreddore per inquinare la ricerca.

Una battaglia durissima iniziata il 22 gennaio quando il coronavirus aveva contagiato solo 400 persone in Cina e ufficialmente provocato appena 17 decessi. Cominciava a diffondersi e forse circolava già nel nostro paese, ma lo avremmo scoperto solo un mese più tardi.

«Allora era difficile immaginare quello che sarebbe accaduto», racconta Luigi Aurisicchio fondatore e amministratore delegato di Takis, società di biotech specializzata nei vaccini di tipo genetico. Una medicina personalizzata, diretta soprattutto a pazienti oncologici. «Abbiamo disegnato il vaccino in pochi giorni partendo da un frammento di Dnasintetico. Lo scopo è quello di istruire il sistema immunitario a produrre anticorpi che blocchino il legame con il recettore e dunque l’ingresso del virus nelle cellule umane», spiega Aurisicchio. Una ricerca complessa che si basa su frammenti di genoma che corrispondono a diverse regioni della proteina S o Spike. Multiple copie di Spike decorano la superficie del virus dandogli il tipico aspetto. Ed è proprio Spike, la punta della corona, che permette a Sars-Cov-2 di attaccarsi alla cellula bersaglio iniziando l’infezione.
[[ge:rep-locali:espresso:285343825]]
Mariano Maffei ha la testa china sul bancone. La alza solo quando sul monitor scorrono le sequenze del Dna. Indica un punto preciso. «Ecco, questo tratto contiene l’informazione sulla composizione in aminoacidi di Spike. Ed è proprio questo tratto che, prodotto in batteri e purificato, sarà somministrato ai pazienti, ove comincerà a dettare la sintesi di Spike, una proteina estranea cui il paziente dovrebbe rispondere formando anticorpi». Maffei ha 34 anni. In tasca un dottorato a Barcellona, un post dottorato tra Roma e Heidelberg, in Germania allo European Molecular Biology Laboratory. «Ho sempre voluto lavorare in Italia: a casa mi aspetta mia moglie che insegna discipline aeree e volteggia sul trapezio», chiarisce. Ha due bimbi, il più piccolo è nato con la pandemia e con loro indossa sempre la mascherina.

Con i suoi colleghi ha disegnato cinque vaccini candidati, che corrispondono ad altrettante regioni del gene che detta la sintesi di Spike. I frammenti saranno somministrati con una tecnica detta di “electro-gene transfer”, «consiste nell’iniezione intramuscolare seguita da una serie di impulsi elettrici che creano transitoriamente dei pori sulla membrana cellulare per permettere l’ ingresso del Dna», specifica Maffei. Se il sistema immunitario riconosce l’intruso, allora inizia a sviluppare anticorpi contro il virus. Al piano terra ci sono gli animali, i protagonisti in questa fase di sperimentazione perché purtroppo senza test sui topi rimarrebbe un obiettivo non raggiungibile. Grazie a loro si raccolgono dati sulla tollerabilità del vaccino e sulla sua efficacia nel bloccare la replica del virus. I risultati, pronti entro la fine di aprile, saranno consegnati all’Istituto Spallanzani di Roma. «Faremo un prelievo e dal siero degli animali vaccinati e selezioneremo quello che si rivelerà maggiormente in grado di bloccare il virus», precisa Aurisicchio. Solo quello più potente andrà avanti con la sperimentazione nell’uomo.

«Se tutto funziona poi si potrà produrre a livello farmaceutico. Ma noi non abbiamo un’officina farmaceutica. Due anni fa abbiamo fatto richiesta al Ministero dello Sviluppo Economico, stiamo ancora aspettando il decreto», ammette. Apre il cassetto e mostra le carte ingiallite dalla burocrazia. E così ora per realizzarla dialogano con Austria, Belgio, Gran Bretagna. Hanno già ricevuto proposte «ma chiedono di trasferirci all’estero e noi vogliamo restare qui, anche se al momento non abbiamo avuto nessun supporto da parte delle istituzioni. Capisco che è prioritaria la gestione dell’emergenza ma il nostro paese non crede e non ha mai investito troppo nella ricerca», conclude Aurisicchio. Per continuare servono finanziamenti. Takis fattura 2 milioni di euro e ne occorrono altrettanti per completare lo studio clinico sull’uomo. Per ora hanno dato il via ad un crowdfunding, con il sostegno anche di testimonial come Simone Cristicchi, Maria Grazia Cucinotta e il batterista Steve Di Stanislao.

La storia di Takis racconta molto dell’Italia della ricerca. Aurisicchio, dopo la laurea in biologia all’università Federico II di Napoli e un dottorato di ricerca, entra nel team dei 200 scienziati impiegati nel maxi-polo della multinazionale americana Merck & Co che però nel 2009 decide di chiudere la sede italiana. Aurisicchio, che in quegli anni ha studiato molto sui vaccini contro il cancro, ha trentanove anni. Come lui i coetanei Giuseppe Roscilli ed Emanuele Marra. «Ci hanno offerto varie possibilità all’estero, dagli Usa alla Germania, ma la scelta è stata quella di restare», raccontano. Iniziano un’attività di ricerca «diciamo in prestito. Una collega ci ha dato mezzo bancone come laboratorio concesso temporaneamente da una collega all’ospedale Sant’Andrea di Roma». Poi arriva una prima commessa dalla Sigma Tau, un progetto sulle cellule staminali tumorali e i tre danno risultati. «E così abbiamo investito tutto nella nostra piccola società biotech», spiegano.

Oggi sono in 25, tutti con laurea e dottorato, alcuni arrivano da altre società che hanno chiuso i loro centri di ricerca. Tutti italiani, la maggior parte donne. Antonella Conforti ha 37 anni ed è in Takis da tre. Biologa, dottorato in virologia, specializzazione in patologia clinica. Ha lavorato nei laboratori di importanti ospedali universitari con contratti sempre precari. «Nel frattempo sono nati i figli e avevo bisogno di stabilità», spiega. In questi giorni è suo marito, che lavora da casa, ad occuparsi di loro. Il più piccolo ha solo quattro mesi. «Ho spiegato ai più grandi che c’è un mostriciattolo che ama saltare da persone a persona e per questo stiamo lontani. E anche che ci vorrà tempo per tornare alla vita normale». Il tempo della scienza, l’avanzare delle risposte per misurare l’incertezza che stiamo vivendo e il sogno un giorno di uscire con la provetta «e dire ce l’abbiamo fatta. Ma non è una gara, chiunque arriverà all’obiettivo lo raggiunge per tutti. La ricerca è fatta di tantissime piccole scoperte che diventano grandi perché servono a qualcun altro per andare avanti». Perché mentre molti politici chiedono di trincerarsi dietro ai propri confini, gli scienziati rispondono collaborando tra loro.

A pochi passi da qui anche altre due realtà italiane sono impegnate contro Covid-19: ReiThera è pronta per testare sugli animali un vaccino basato su un altro virus parainfluenzale, l’adenovirus, e Irbm Science Park, che nel 2016 ha messo a punto il primo vaccino italiano contro l’Ebola, ora collabora con lo Jenner Institute dell’Università di Oxford.

Nel mondo sono una quarantina i prototipi, alcuni in fase avanzata. La biotech statunitense Moderna ha già avviato la prima sperimentazione sull’uomo; la tedesca CureVac, protagonista di una sfida politica dopo l’interesse di Donald Trump ad acquistarla in modo da garantirsi l’esclusiva, sarà pronta per l’estate e forse a un punto di svolta sono arrivati gli scienziati dell’Università di Pittsburgh. «I topi vaccinati producono anticorpi specifici. Il PittCoVacc è una specie di cerotto con 400 microaghi che in 2-3 minuti si sciolgono, senza dolore e senza sanguinamento» rivela a “EBioMedicine” Andrea Gambotto, ricercatore italiano di questo team.

È una gara da cui dipende il destino dell’umanità, che però avanza con risorse scarse. Le multinazionali del farmaco non investono volentieri nella ricerca per immunizzarci. C’è infatti il rischio che le epidemie finiscano prima dei test clinici. Adesso però si è compresa la gravità del rischio e dopo avere contato decine di migliaia di vittime e di miliardi di danni economici, forse il mondo imparerà dalla batosta. Imparando a valorizzare quei precari della scienza poveri di fondi ma ricchi di idee.