
È come si inseguisse il destino attraverso interventi che cerchino di contenerne la crudeltà. Non si vuol comprendere che nel mondo del nuovo millennio - mondo già chiaramente prevedibile nel tremendo Novecento - l’accelerazione straordinaria che stressa tutti i fattori della nostra vita crea fisiologicamente le condizioni per una perenne emergenza, per uno stato continuo di crisi, anche se esso assume di volta in volta “maschere” diverse.
Prevedere e prevenire è ancora possibile? La domanda non ha più nulla di retorico; pandemica è quella accelerazione; è essa che sta scardinando non solo le forme tradizionali dell’azione politica, ma i nostri comportamenti, i nostri “abiti”, il nostro common sense. Possiamo seguirne la direzione di marcia come gli schiavi in catene dietro il carro del vincitore, oppure possiamo almeno cercare di comprenderne il significato.
Assistiamo, io credo, a un formidabile processo di disaggregazione di ogni forma autonoma di rappresentanza nella cosiddetta “società civile”, frantumazione che affonda le sue radici materiali nell’organizzazione della produzione e del lavoro. La secolare storia dell’individuo moderno si compie decretando la sua impotenza a dar vita a qualsiasi comunità.
Il motto oggi ovunque ripetuto non è riducibile all’infelice lapsus di qualche burocrate o comunicatore di passaggio, è davvero rivelatore: non si parla di distanza fisica, bensì di distanza sociale! Occorre essere davvero ciechi e sordi allo spirito dei tempi se non si avverte come anche il “tutti a casa” sia infinitamente più di un imperativo dettato da indubitabili ragioni sanitarie. E che lo sia già emerge da ogni parte.
Non sarebbe auspicabile che si svolgesse sempre “a casa”, da bravi individui, anche il proprio lavoro? Che avessero luogo a distanza incontri e lezioni? Perchè non farne la regola per uffici, scuole, università? Il contagio è sempre in agguato quando non si è soli. Pericolosa è ogni relazione o comunicazione sociale che vada oltre il semplice informarsi. Magari anche la famiglia potrebbe essere organizzata on line. Quanti femminicidi si eviterebbero! È vero: la prossimità è cura, affatica, arrischia, può sempre capitare che nel colloquio, nell’incontro “ravvicinato” nasca il germe di un pensiero critico, di una volontà collettiva, o almeno che l’individuo in quanto tale riconosca con dolore la propria impotenza. Evitiamolo dunque.
È questa la prospettiva in cui intendiamo muoverci? Certo lo è della forma politica di grandi imperi, del “capitalismo politico” (vedi il recente libro di Alessandro Aresu) cinese e, per altri versi, russo, e magari sempre più anche americano. La stessa potenza dell’attuale Tecnica, prodotto del nostro cervello sociale, opera inesorabilmente in questa direzione? Chi lo afferma, più o meno esplicitamente, considera ogni altra alla stregua delle antiche ideologie.
Al di fuori della decisione politica conforme alle esigenze del mercato e dello scambio, sovrana sulla moltitudine di addomesticati individui, non vi sarebbe spazio che per nostalgie reazionarie. Si dimentica che soltanto la socialità della intelligenza del nostro genere ha saputo produrre quella Tecnica, il colloquio tra menti, la discussione, il confronto e anche la lotta tra loro. Se il “sistema della scienza” eliminasse da sé lo stesso problema del suo rapporto con quello della libertà, di una libertà reale fatta di partecipazione, organizzazione, critica, il mondo globale assumerebbe finalmente l’aspetto di un mucchio immenso di case private. Il linguaggio stesso con cui la politica si muove in questa crisi sembra auspicarlo, procede in questo senso, cosciente o meno lo sia. Se non è già troppo tardi, pensiamoci.