La climatologa Elisa Palazzi al Festival di Camogli a settembre: «Bisogna parlarne, non solo nelle scuole. La crisi climatica come il rischio di diffusione di un virus globale sono allarmi segnalati dalla comunità scientifica da decenni, ma entrambi sono stati trascurati».
Bombe d’acqua che sommergono città intere. Ondate di calore sopra i 40 gradi. Ghiacciai che si sciolgono e costringono all’evacuazione decine di persone. Non è un film catastrofico, ma il racconto dell’estate 2020. E nonostante questi eventi estremi stiano avvenendo in Italia, il problema viene ancora percepito come lontano. «È una questione di approccio mentale: la crisi climatica così come il rischio di diffusione di un virus a livello globale sono allarmi segnalati dalla comunità scientifica da decenni, ma entrambi sono stati trascurati perché sono fenomeni dilatati nel tempo e percepiti come non immediati».
Ad affermarlo è Elisa Palazzi, r
icercatrice del CNR e docente di Fisica del Clima all'Università di Torino, che la mattina del 12 settembre sarà al
Festival della Comunicazione a Camogli, insieme al fotografo e divulgatore Alberto Girani, proprio per riportare l’attenzione pubblica sull’emergenza ambientale, passata in secondo piano con lo scoppio della pandemia mondiale.
L’incontro, dal titolo “Crisi climatica, crisi globale: il ruolo del singolo e quello di tutti”, si inserisce nell’ambito della settima edizione del Festival ideato e diretto da Rosangela Bonsignorio e Danco Singer, che si terrà dal 10 al 13 settembre nelle vie e piazze della cittadina ligure, nel ricordo del padrino dell’evento, Umberto Eco.
Il punto di partenza del dialogo saranno le connessioni tra la crisi climatica globale e la crisi sanitaria mondiale: entrambe si stanno manifestando nonostante gli allarmi inascoltati della comunità scientifica, entrambe richiedono un intervento coordinato a livello mondiale ed entrambe devono essere affrontate partendo dalle evidenze e le conoscenze che arrivano dalla scienza.
«La Terra ha la febbre alta, la crescita delle temperature a questo livello di emissioni porterà a un aumento di 5 gradi in media nel 2100», ha detto all’Espresso la climatologa. «E tra le conseguenze peggiori del riscaldamento globale c’è lo scioglimento dei ghiacci, che ci metterà di fronte al problema dell’acqua, che sarà troppa o troppo poca».
Gli effetti, che stiamo già toccando con mano, non sono solo ambientali, ma anche sociali ed economici. Se la perdita di ecosistemi interi e della loro biodiversità non fosse abbastanza, la ricercatrice ribadisce che la progressiva fusione dei ghiacci marini e delle calotte polari in Groenlandia e in Antartide, comporta un innalzamento del livello del mare, fino a un metro e dieci nello scenario peggiore. Le città su coste e lagune ne farebbero le spese per prime. Basti pensare a quello che è accaduto a Venezia lo scorso autunno, quando picchi di acqua record, superiori al metro e mezzo, hanno portato l’intera cittadina un periodo di crisi economica senza precedenti.
Non solo, lo scioglimento delle nevi e ghiacciai montani porta a crolli di pareti montuose e a lunghi e sempre più frequenti periodi di siccità. «Nel 2017 l’Italia è stata colpita da una fortissima siccità, sulle Alpi i nevai si sono prosciugati, sono stati chiusi i rifugi e ci sono stati 2 miliardi di danni all’agricoltura» ricorda la Palazzi. E senza andare troppo in là nel tempo, nella prima settimana di agosto 2020 il rischio del distaccamento di una parete ghiacciata del Monte Bianco di 510mila metri cubi ha costretto all’evacuazione di 75 persone nella Val Ferret, sotto Courmayer.
«L’acqua oggi è data per scontata ma dobbiamo chiederci: cosa faremmo se finisse?». Dall’irrigazione all’uso potabile, dalla produzione di energia fino al funzionamento delle industrie, l’acqua è usata per tutto. Se la massa dei ghiacciai si riducesse fino a scomparire, esauriremmo le nostre riserve di acqua dolce e il problema dell’approvvigionamento idrico diventerebbe ancora più grave, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche di conflitti e migrazioni.
Il 12 settembre gli esperti mostreranno tutti i cambiamenti già indotti dal riscaldamento globale nella nostra penisola, dove sono più evidenti rispetto al resto del mondo. Il Mediterraneo, ha spiegato la dottoressa Palazzi, è un hot spot, cioè una di quelle zone in cui i cambiamenti climatici sono più intensi e i loro effetti più significativi. «Nell’area mediterranea la temperatura aumenta del doppio rispetto alla media globale, e gli impatti previsti sono più importanti». In Italia i ghiacciai dal 1850 si sono dimezzati, la Marmolada negli ultimi 15 anni ha perso il 30 per cento del suo volume e, se la situazione restasse inalterata, in 30 anni potrebbe scomparire. Il sud è a rischio desertificazione, le città sulle coste a rischio mareggiate sempre più frequenti.
Durante l’incontro si snoccioleranno tutte queste argomentazioni, rafforzate da dati scientifici, pubblicazioni autorevoli e testimonianze fotografiche di prima mano, ma si cercherà soprattutto di giungere a proporre delle soluzioni. «Tornare indietro è impossibile ma non è vero che il disastro è inevitabile». Le cause sono antropiche, ma anche le soluzioni. Per questo, secondo la ricercatrice, le strade da seguire sono due: mitigazione dei danni, cercando di mantenere l’aumento medio di temperatura sotto i parametri del 2% fissati al Cop21 di Parigi nel 2015 e adattamento tempestivo della società a quei cambiamenti che non si possono più evitare.
L’emergenza è globale, per la prima volta nella storia parliamo di una crisi che riguarda il 98 per cento della superficie terrestre, che sta avvenendo «in tutto il mondo, in modo sincrono e molto rapidamente: per questo serve una politica compatta, coordinata e globale» auspica l’esperta. E conclude: «La pandemia ha smorzato gli slanci europei, invece dovrebbe essere il modo per ripartire con il piede giusto, spingendo perché non si finanzino più idrocarburi fossili, riducendo le emissioni e puntando sull’energia rinnovabile».
C’è poi una terza via da percorrere e viene indicata direttamente dal tema centrale di tutto il festival, che quest’anno è dedicato alla socialità. Bisogna mettere in campo quelle azioni di informazione che possono fare la differenza. «Sulla spinta dei ragazzi del Friday for future anche la comunità scientifica si è sentita tirata dentro, c’è fame di conoscere e comprendere cosa sta accadendo, per questo è importante parlarne, non solo nelle scuole» ha dichiarato la ricercatrice.
La socialità parte dalla condivisione e la consapevolezza. La creazione di una cultura del rispetto dell’ambiente passa dagli scienziati che mettono le loro conoscenze e il loro tempo a disposizione della comunicazione e della divulgazione, ma anche da ogni singola persona, che ha l’opportunità di farsi a sua volta portavoce di questi temi. Così che ognuno possa fare «quelle piccole cose che servono per innescare un circolo vizioso positivo, che porti a un cambiamento reale».