La parola
Porto (di Evelina Santangelo)
Ogni settimana sull'Espresso un termine commentato da una grande firma
Abbiamo sperimentato cosa significa ritrovarsi in balia di una catastrofe per cui non c’è riparo fino a quando domina la morte quotidiana di centinaia di esseri umani non per mano dell’uomo (carneficine cui siamo abituati) né per calamità naturali contemplate tra gli accadimenti possibili (fenomeni sismici, vulcanici, piene, alluvioni frane).
L’epidemia che sfibra, perché colonizza il tempo, e la sua dimensione pandemica che non lascia scampo hanno riesumato paure ataviche di mali indomabili. Forse per questo fatichiamo a capire quanto la catastrofe cui si sta cercando di porre rimedio abbia a che vedere inestricabilmente con noi, la nostra concezione predatoria del rapporto tra umanità e natura, il mondo che abbiamo creato con piglio da divinità determinate a travolgere e creare tutto a propria immagine e somiglianza, cioè a misura dei propri appetiti onnipotenti diventati bisogni. Così oggi non c’è luogo e angolo della terra che possa essere considerato al sicuro, non minacciato da un senso di fragilità e d’assedio nei confronti delle nostre esistenze, da salvaguardare in ogni istante, difendere con distanziamenti e confinamenti inconcepibili in un mondo sempre più proiettato verso una conquista collettiva: l’azzeramento di distanze spaziali e temporali; la contrazione di esistenze e traffici in attimi, frazioni di secondo.
Abbiamo piegato il tempo e lo spazio a immagine e somiglianza della più appagante istantaneità ma abbiamo perso il senso dello specchio d’acqua calma di un porto (ormai concepito come una «porta» da chiudere o aprire). Un porto dove sapere di poter sempre trovare riparo da tempeste o aggressioni. O dove poter fermarsi a compiere quelle riparazioni lente, ponderate che servono a ricucire reti, esistenze, relazioni, traffici di mare e di terra. Costruire porti capaci di offrire riparo ai travolti – tutti i travolti di ogni tempesta – all’interno di un porto più vasto che metta al sicuro il pianeta dalle nostre stesse aggressioni forse è il modo in cui dovremmo fermarci a pensare il mondo da salvare.