Storie d’amore, di killer e vampiri. Star come Can Yaman, ma anche trame complesse come in "Ethos". Dopo aver conquistato Medio Oriente e Maghreb, le serie prodotte a Istanbul si diffondono in Occidente. L’analisi per la nuova newsletter dell’Espresso sulla galassia culturale araba

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C'è voluta la love story tra la conduttrice Diletta Leotta e l'attore turco Can Yaman, star di “Daydreamer” e futuro protagonista del nuovo serial su Sandokan, per accendere i riflettori su un fenomeno in crescita da tempo: le serie televisive turche hanno conquistato anche il mercato italiano. Da Canale 5 a Netflix, queste storie a puntate accompagnano le giornate del pubblico italiano. E consolidano anche in Italia un “soft power” che migliora l'immagine di un Paese i cui rapporti con l'estero, da quando è arrivato al potere Recep Erdogan, passano da una crisi all'altra.

 

I creatori di serial turchi si sono fatti le ossa con il pubblico del mondo arabo: che non è certo facile da accontentare, vista la concorrenza di produttori di paesi diversi con grandi tradizioni cinematografiche. Nel mondo delle “musalsalat” (le telenovele arabe, trasmesse dal Medio Oriente al Marocco) i turchi si sono fatti strada con storie d'amore passionali e a lieto fine: il ricco uomo d'affari che assume una donna che ogni sera gli lasci la cena pronta ma non vuole incontrarla mai, finché finisce per innamorarsene (“Bitter sweet”), la professoressa che non vede nemmeno il collega istruttore di ginnastica e si accorge di lui solo grazie a una congiura degli studenti (“Love 101”).

 

In queste storie “Islam friendly” l'amore porta sempre al matrimonio e non c'è spazio per il tradimento, l'infedeltà, ancor meno l'omosessualità. Questo però non è bastato a mettere al riparo i turchi dal fuoco amico della censura nei paesi arabi. È ancora vivo lo scandalo provocato nel 2008 da “Noor”. Doppiata dal turco al siriano, nel mondo arabo ha avuto un successo entrato nella leggenda: l’ultima puntata è stata vista da 85 milioni di persone, e secondo un calcolo quasi la metà delle donne di tutto il mondo arabo. Malgrado la sua trama castissima, almeno ad occhi occidentali, “Noor” era stata tagliata prima della trasmissione, e malgrado questo è stata condannata dalle autorità religiose: era vietato entrare in moschea con le magliette decorate con i volti dei protagonisti e i proprietari della televisione che lo trasmetteva hanno rischiato una fatwa.

 

A quell'invasione di facili costumi turchi ha risposto una serie che denuncia le ferite – mai sopite – della dominazione ottomana sui paesi del Maghreb e della penisola araba: “Kingdoms of fire”, serial girato da un regista inglese con un cast pan-arabo, prodotto dai sauditi e trasmesso con grande successo in Egitto e in altri Paesi arabi, mette in pessima luce l'impero di Istanbul. Una denuncia a scoppio ritardato che sembra rispondere, in realtà alla recente politica estera del leader turco, visto come troppo interventista se non decisamente neo-imperialista.

Kingdoms of fire

Per il pubblico europeo, i produttori turchi accostano alle storie d'amore avventure più dark: i protagonisti sono serial killer come Fatma, colf ma anche insospettabile assassina, o vampiri come Mia e Dimitri in “Immortals”. Con “Ethos” invece si fa un salto di qualità: una girandola di personaggi che raccontano la Turchia di oggi sono tenuti insieme dallo studio di una psicologa, in una trama che – finalmente – mette in discussione anche legami familiari, obblighi morali e religione.

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