Il piano italiano
«La rivoluzione ambientale? Tanti annunci e pochi fatti»
Avanti adagio sulla decarbonizzazione, agricoltura e zootecnia trascurati. Per associazioni ed esperti gli obiettivi della transizione ecologica sono lontani
La premessa ha la solennità degli annunci storici. «Serve una radicale transizione ecologica verso la completa neutralità climatica e lo sviluppo ambientale sostenibile per mitigare le minacce a sistemi naturali e umani». Così si legge nelle prime righe della missione numero 2, dedicata alla cosiddetta rivoluzione verde, del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che il governo italiano ha inviato alla Commissione Europea il 30 aprile scorso. Un impegno che fa seguito all’istituzione del ministero della Transizione ecologica guidato dallo scienziato Roberto Cingolani, con delega alle politiche ambientali ed energetiche. Tutti segnali che paiono indicare la volontà di un drastico cambio di rotta e di una revisione complessiva del modello di sviluppo.
Ma la transizione ecologica prospettata dal piano è davvero così radicale come viene annunciata? La completa neutralità climatica e lo sviluppo sostenibile sono effettivamente gli architravi di quella strategia per l’ammodernamento del Paese descritta dal premier Mario Draghi nell’introduzione al Pnrr? «Si sta evocando una rivoluzione che nei fatti non avverrà», taglia corto Matteo Leonardi, co-fondatore di Ecco, think tank dedicato al cambiamento climatico e alla transizione energetica. L’analisi delle misure presenti nel piano sembra in effetti contraddire la direzione indicata nel preambolo. «I circa 78 miliardi contrassegnati come azioni per il clima non sono distribuiti in modo da innescare processi virtuosi di innovazione. Manca una visione forte per la de-carbonizzazione, sia sulle fonti di energia rinnovabile che sulla mobilità sostenibile. Senza parlare dell’efficienza energetica degli edifici, in cui si è deciso di confermare il super-bonus del 110 per cento per i privati ma si sono tagliati i fondi per l’efficientamento degli edifici pubblici».
L’Unione Europea ha recentemente rivisto al rialzo i propri traguardi di de-carbonizzazione, stabilendo un decremento del 55 per cento delle emissioni clima-alteranti al 2030 rispetto ai livelli del 1990 e un azzeramento totale al 2050. L’Italia non ha una road map chiara per raggiungere questi obiettivi. Le azioni previste nel Piano di ripresa e resilienza indicano la mancanza di una prospettiva strategica, capace di puntare su quei settori che altrove sono considerati cruciali per guidare la transizione. Prendiamo le fonti di energia rinnovabile: «L’Italia dovrebbe incrementare di 6 Gigawatt all’anno la potenza rinnovabile, ma nel Pnrr si prevedono risorse per 4,2 Gigawatt complessivi per i cinque anni del piano. Con queste premesse difficilmente riusciremo a stare al passo con la strategia di lungo termine europea», dice ancora Leonardi.
Mai come in questo caso vale il detto che l’erba del vicino è sempre più verde: in Germania, una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe ha bocciato la legge sul clima definendola troppo vaga sugli impegni assunti per la de-carbonizzazione e ha spinto alla fine il governo a darsi obiettivi più ambiziosi di quelli europei, con un taglio delle emissioni del 65 per cento al 2030 e la neutralità climatica al 2045, cinque anni prima rispetto al resto del continente. La Spagna ha appena approvato una legge sul clima che blocca con effetto immediato nuovi permessi di esplorazione e produzione dei combustibili fossili e prevede di portare al 2030 le fonti rinnovabili al 74 per cento del fabbisogno elettrico nazionale. L’Italia invece punta a sostituire le centrali a carbone con impianti a gas, che è un altro combustibile fossile; non investe sul trasporto elettrico e non si interroga minimamente sull’impatto ambientale delle proprie produzioni industriali.
«Nella missione 1 del Pnrr, quella dedicata all’industria, la parola clima non compare», fa notare ancora Leonardi. «Si parla di digitalizzazione, innovazione ed internazionalizzazione, senza porre l’efficienza energetica e le tecnologie per il clima come una variabile di questo processo».
Altro elemento trascurato dal piano è il peso che un certo modello di produzione agro-alimentare può avere sull’ambiente. «Il comparto agricolo è il grande assente dalla transizione verde», sottolinea Federico Ferrario, responsabile della campagna agricoltura sostenibile di Greenpeace Italia. A fine aprile, l’associazione ambientalista ha affisso alcune targhe sostitutive per rinominare i ministeri più coinvolti nel Pnrr. Così il ministero della Transizione ecologica è stato ribattezzato «ministero della finzione ecologica», quello delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili, guidato da Enrico Giovannini il «ministero dei treni persi e dell’immobilità elettrica», il ministero dello Sviluppo economico è diventato il «ministero dello sviluppo che distrugge il pianeta». E quello dell’agricoltura il «ministero degli allevamenti intensivi e di altre attività inquinanti». Secondo Greenpeace, Il Pnrr contraddice completamente i dettami del green new deal e della strategia «farm to fork» dell’Unione europea. «È stupefacente», sottolinea ancora Ferrario, «che non vi sia nessun investimento per incrementare la superficie agricola dedicata all’agricoltura biologica, di cui noi siamo leader europei, o di investimenti in agro-ecologia per ridurre gli impatti del settore agricolo e creare valore aggiunto alle produzioni nazionali».
Altro aspetto su cui Greenpeace punta il dito è quello relativo agli allevamenti intensivi. «Non c’è il minimo accenno alla revisione di un sistema che produce a livello globale il 14,5 per cento delle emissioni, contribuisce alla formazione di polveri sottili soprattutto in Pianura Padana e favorisce lo sviluppo dell’antibiotico-resistenza». Dal punto di vista dell’associazione ambientalista, le risorse del Pnrr potevano essere usate adeguatamente per accompagnare gli allevatori verso un modello che prevedesse una riduzione dei capi allevati e una diminuzione dell’impatto ambientale e climatico. «Invece si è scelto il business as usual, perpetuando un sistema che produce carne a basso costo e alimenta un futuro ad alto rischio». L’unica novità che viene avanzata dal piano quando si parla di zootecnica è un finanziamento importante (1,1 miliardi di euro) per costruire pannelli solari sui capannoni degli allevamenti. «Misura condivisibile che però da sola indica la non volontà di rivedere un modello di produzione che compromette pesantemente gli eco-sistemi», conclude Ferrario.
In termini di adattamento, il Pnrr riconosce che «l’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici e, in particolare, all’aumento delle ondate di calore e delle siccità».
Per fronteggiare la scarsità idrica è prevista la creazione di un sistema di invasi e bacini per la raccolta dell’acqua con uno stanziamento complessivo di 1,8 miliardi di euro. «Sicuramente è importante un ammodernamento delle infrastrutture idriche, che sono vetuste», sottolinea il climatologo Giulio Boccaletti, autore del libro “Water: a biography”, una storia mondiale dell’acqua che uscirà in inglese a settembre. «Ma bisogna rivedere anche i modi di produrre. L’Italia è molto più esposta di altri Paesi ai mutamenti climatici e deve affrettarsi perché è chiaro che alcune aree del Paese avranno un clima sempre più simile a quello nordafricano e alcune coltivazioni in prospettiva dovranno cambiare. Il problema è che l’Italia al momento non programma il futuro: non ha nemmeno un coordinamento nazionale climatologico che si preoccupi di dire come gestiremo i cambiamenti ambientali tra quindici anni».
Una mancanza di visione che costituisce una pesante zavorra per il sistema Paese e che appare tanto più sorprendente nel momento in cui siamo presidenti di turno del G20 e co-organizzatori della Cop 26, la Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite che si terrà a Glasgow a novembre. Nella sua recente visita nel nostro Paese John Kerry, inviato speciale degli Stati Uniti per il clima, ha affermato: «L’Italia ha una grande opportunità di leadership nel lavorare sul tema dei cambiamenti climatici e gli Stati Uniti sono pronti ad aiutarla. Il vostro successo sarà il successo di tutti noi». Più che uno stimolo a un’azione condivisa è suonato a molti come un’esortazione a fare di più e più in fretta.