Migliaia di persone in fuga dalla guerra stanno per arrivare in Italia. Ma col calo dei fondi deciso dai decreti sicurezza i servizi di Cas e Sai sono quasi azzerati. Tra letti sporchi, bagni sudici e scarafaggi

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Sono quasi tre milioni gli ucraini fuggiti dal proprio paese e che ora cercano una sistemazione lontano dalle bombe russe. Non si sa ancora quanti raggiungeranno l’Italia – si stima nell’ordine di decine di migliaia – ma con l’allungarsi della guerra i numeri potrebbero aumentare di molto. Quella italiana è infatti una delle comunità ucraine più grandi d’Europa, con 248mila persone. A oggi si contano circa 40mila ingressi, assorbiti per ora da parenti o amici. Se i numeri dovessero aumentare, non è detto che l’Italia sia pronta.

 

Il decreto legge Ucraina, entrato in vigore il 28 febbraio scorso, prevede che Cas, i centri di accoglienza straordinari, e Sai, Sistema di Accoglienza e Integrazione, siano i luoghi per ospitare i rifugiati. Sono stati semplificati i passaggi per potervi accedere, così che non sarà necessario presentare domanda di protezione internazionale. Il decreto ha specificato anche l’aggiunta di ottomila nuovi posti (cinquemila per i Cas e tremila per i Sai), metà di quelli dichiarati in un primo momento. A questi si aggiungono poi, eventualmente, i covid hotel attivati per la pandemia.

 

A livello europeo la Commissione ha annunciato l’attivazione, per la prima volta nella storia, della direttiva che consente la “protezione temporanea” ed evita la valutazione delle singole domande di asilo, fornendo protezione immediata e alcuni diritti fondamentali (ingresso, lavorare, accedere all'assistenza sanitaria, all'alloggio e all'istruzione immediatamente per un massimo di un anno, prorogabile per altri due).

 

L’accoglienza
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Una norma che prevede che tutti i paesi dell’Unione Europea (tranne la Danimarca che non partecipa) aderiscano al piano di redistribuzione dei profughi. Non c’è distribuzione obbligatoria, ma “sforzo di equilibri”, per cui spetta all’Italia dire quanti ucraini è disposta ad accogliere. Mentre spetterà all’Ue stabilire i fondi necessari: difficile siamo meno di 10mila euro all’anno a persona, la cifra solita.

 

«L’Italia rappresenta il 13 per cento della popolazione europea, quindi a oggi parliamo di più di trecentomila persone. Se, come dice l’Unhcr, si arrivasse a cinque milioni di profughi, questo numero sarà doppio», spiega Filippo Miraglia dell’Arci.

 

Trentadue organizzazioni nazionali che fanno parte del Tavolo Asilo e immigrazione, tra cui la stessa Arci, hanno inviato una nota urgente al presidente del Consiglio Mario Draghi e al ministro dell’Interno con alcune richieste: il riconoscimento della protezione a tutte le persone fuggite (anche prima del 24 febbraio) dall’Ucraina, anche quelle provenienti da paesi terzi (ci sono infatti numerosi studenti provenienti dall’Africa ma anche dall’Afghanistan), per cui ora è previsto il rientro forzato in patria, senza il diritto di rimanere in Ue.

 

«Vogliamo che si torni a un regime pre-Salvini, non possiamo fare accoglienza senza servizi», aggiunge Miraglia, ricordando che Arci si è tagliata fuori dall’accoglienza dopo i tagli dei decreti sicurezza del governo Conte I. «È necessaria anche una deroga che consenta le gare pubbliche, con la garanzia data dagli enti locali che ci conoscono e che già stanno iniziando a contattarci per la gestione delle persone». Il tavolo spinge per un’accoglienza nelle famiglie, con un contributo per chi ospita. Le chiamate di questi giorni alle associazioni sono migliaia, ma la cosiddetta “accoglienza esterna” deve essere sostenuta economicamente.

 

«Le protezioni civili regionali stanno chiedendo agli alberghi di ospitare le persone offrendo 45-55 euro al giorno, senza servizi, solo vitto e alloggio. Alle associazioni invece spettano i soliti 24 euro, vitto alloggio. Come facciamo a garantire un qualche servizio a questa cifra?», conclude Miraglia. La confusione al momento è tanta e si aspettano ulteriori specifiche dal consiglio dei ministri.

 

Intanto la Protezione Civile è vaga sul da farsi. Il piano di prima accoglienza, come conferma a l’Espresso il Dipartimento, prevede l’attivazione di un piano modulare: prima Cas e Sai, poi regioni e comuni che andranno a supporto in caso di saturazione del sistema ordinario. Ma non specificano in che modo. Previsto anche il coinvolgimento del terzo settore, ma per ora, confermano, chi arriva poggia sulla rete familiare e di conoscenze.

 

La mappa dei Cas contava, a fine 2020, 4.556 strutture Cas, 4.570 strutture Sprar/Siproimi e dodici centri di prima accoglienza. Nei primi due anni dai decreti sicurezza Salvini, Open Polis insieme ad ActionAid, hanno descritto un sistema di accoglienza distrutto, con l’aumento delle problematiche già presenti e lo smantellamento delle buone prassi. Il cambiamento più forte è dovuto al calo da 35 a circa 26 euro al giorno per ospite, che ha azzerato ogni tipo di servizio, come quelli forniti dai mediatori culturali, e che ha portato alla chiusura di molte strutture (un calo di oltre il 25 per cento dei posti disponibili).

 

Con la diminuzione del mercato dei Cas, sono aumentati i casi di centri mal gestiti e tenuti nella sporcizia. È di pochi giorni fa il caso del centro di accoglienza di Pesaro, portato alla luce dall’avvocata e consigliera comunale Giulia Marchionni. Letti sporchi, bagni sudici, scarafaggi, resti di cibo nel frigo, muffa sui muri. «Gli ucraini hanno avuto la forza e la possibilità di denunciare il problema, ma quanti sono stati lì e non hanno potuto denunciare lo schifo? Un conto è chi arriva sulle nostre coste, così disperato che tetto sopra la testa se lo prende, costretto a stare in silenzio per paura di perderlo», commenta Marchionni a L’Espresso. Il centro al momento non è stato chiuso, la Prefettura ha disposto un’ispezione.

 

«Un Cas lo può aprire chiunque, ci sono situazioni meritevoli che hanno alle spalle una formazione e altri che lo fanno per puro denaro», spiega Alda Re di LasciateCIEntrare, che da anni monitora la situazione all’interno dell’accoglienza italiana, raccogliendo denunce di ogni tipo. «Il problema di avere crisi riconosciute a livello globale è che si sottraggono i posti all’accoglienza: lo abbiamo già vissuto con gli afghani, che hanno preso il posto dei migranti che erano presenti nei centri, solo perché riconosciuti a livello istituzionale», denuncia Re, che parla di una direttiva da parte del ministero inviata ai centri con lo scopo di fare spazio.

 

E non è detto che non si arrivi a fare lo stesso con questa nuova crisi umanitaria: «Le persone che erano nei Cas, nei progetti Sprar o nelle case dei comuni, sono state messe in strada nel giro di tre giorni». Un grande flusso quello afghano, circa un milione di persone, ma piccolo se paragonato a quanto sta avvenendo con l’Ucraina.

 

L’immigrazione poi non sparisce all’improvviso: la rotta balcanica si sta nuovamente affollando di quei profughi da sempre respinti con violenza dai paesi, come la Polonia, che ora accolgono gli ucraini. E l’Italia intanto rafforza il sistema delle cosiddette “navi quarantena”, istituito con la pandemia, pronto a intercettare i migranti dal nord Africa. Nonostante le numerose denunce delle associazioni che descrivono il trattamento al loro interno come inumano per chi arriva già logorato da un viaggio lungo mesi e costellato di violenza.