Se qualche giorno fa il lancio di Artemis 1 non fosse stato rimandato, il sessantesimo anniversario del discorso “We choose to go to the Moon”, tenuto alla Rice University il 12 settembre del 1962 dall’allora presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, sarebbe coinciso con la nuova avventura lunare.
Commemorare un discorso epocale mentre è in corso la prima missione del nuovo programma Artemis, deputato a riportare il genere umano sulla superficie selenica a oltre mezzo secolo dall’ultima volta, sarebbe stata una coincidenza fortunata.
Invece una cospicua perdita di idrogeno durante il riempimento del serbatoio dello Space Launch System (o Sls), cioè del nuovo sistema di lancio della Nasa, alto un centinaio di metri, costato 40 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni (fonte: New York Times) e scelto per portare Artemis 1 nello spazio, ha fatto interrompere il conto alla rovescia in due occasioni: lo scorso 29 agosto e il 3 settembre.
Dopo la seconda cancellazione, i responsabili del lancio si sono convinti sia necessario sostituire un connettore probabilmente difettoso, visto che i ripetuti interventi di raffreddamento preventivo non avevano sortito l’effetto desiderato e la perdita stava diventando pericolosa.
Detto altrimenti, andare avanti avrebbe comportato rischi significativi e il gioco, con tutta evidenza, non sarebbe valso la candela. È utile ricordare che per il solo lancio, l’Ufficio dell’ispettore generale della Nasa (l’Oig) ha stimato una spesa di 2,2 miliardi di dollari. Per tutta la missione, i miliardi in ballo supererebbero i quattro; circa 95 se si considerassero le prime tre spedizioni del programma, cioè quelle che porteranno, con Artemis 3, all’allunaggio della prima donna e del prossimo uomo, oggi previsto nel 2025 (2026 dicono i più scettici, consapevoli dei tanti ritardi accumulati).
“Il costo di due cancellazioni è di molto inferiore a quello di un fallimento” ha non a caso dichiarato l’amministratore della Nasa, Bill Nelson, fin dalla prima ora tenace sostenitore dello Space Launch System: successore dello Space Shuttle ed erede del Saturno V, il razzo che fra il 1969 e il ’72 portò 12 uomini sulla Luna, Sls è nato sotto la spinta dei potenti senatori del Texas e della Florida, nella fattispecie lo stesso Nelson, tanto da far dire ai maligni che Sls stia per “Senate Launch System”.
Dal punto di vista tecnico, l’eredità più ingombrante dello Shuttle è l’utilizzo dell’idrogeno come combustibile. In linea di principio è una scelta difficile da criticare: l’idrogeno è un carburante potente ed ecologico perché, combinandosi con l’ossigeno, produce acqua e libera energia. Peccato sia anche l’elemento più semplice in natura, formato da un solo protone con il suo elettrone, caratteristica in grado di rendere la molecola piccolissima capace di sfuggire dalla più microscopica incrinatura. Per di più capita spesso che le perdite non possano essere rilevate fino a quando le strutture attraverso cui deve transitare l’idrogeno liquido non vengano raffreddate a -253 gradi centigradi, la stessa temperatura del gas liquefatto.
Una procedura, quella di raffreddamento e transito del gas, attuabile solo durante il countdown, quando i serbatoi vengono riempiti sulla rampa. Piccole perdite sono quindi normali e si sono presentate puntuali in quasi tutti i lanci degli Shuttle, che usavano i medesimi motori, gli Rs-25, e una versione più piccola dei propulsori laterali a combustibile solido dello Sls, i cosiddetti booster.
Proprio perché si combina così bene con l’ossigeno, però, l’idrogeno è altamente infiammabile e, per non correre rischi, la percentuale del gas libero deve essere mantenuta sotto il livello di guardia del 4%. Sabato 3 settembre questa soglia è stata superata di oltre due volte, tanto da convincere la direttrice di volo, Charlie Blackwell-Thompson, ad annullare il lancio e a rinviarlo a data ancora da stabilirsi. Prima occorrerà sostituire il connettore e le batterie del Flight Termination System, operazioni per le quali tutto il sistema dovrebbe essere ricoverato al Vertical Assembly Building, l’imponente “hangar” del Kennedy Space Center, dove non sono però possibili i test con il gas liquefatto.
Sebbene la Nasa abbia già iniziato i lavori sulla rampa, la partenza di Artemis 1 potrebbe slittare a venerdì 23 settembre (dalle 12:47 italiane con una finestra di due ore), o a martedì 27 (dalle 17:47 italiane con una finestra di 70 minuti), ma non è escluso che il rinvio possa protrarsi anche oltre il prossimo “launch period”, che si chiuderà il 4 di ottobre.
«Lavorare con l’idrogeno è difficile», hanno dichiarato i responsabili della Nasa. Affermazione che ha giocoforza portato anche i meno scettici a domandarsi se i 135 voli dello Space Shuttle, due tragici fallimenti compresi, abbiano insegnato qualcosa. Oppure se chi sapeva sia andato in pensione portandosi dietro un prezioso patrimonio di competenze.
È però per la scelta di quell’aggettivo, “difficile”, che la commemorazione del discorso di Jfk torna a essere attuale, chissà quanto fortunosamente. Eccone uno dei passaggi più celebri:
«Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio e di fare le altre cose non perché siano facili, ma perché sono difficili. Perché questo obiettivo servirà per organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità».
Sarebbe ingenuo non cogliere fra le righe uno sfrontato messaggio di sfida (una sfida tecnologica, militare, strategica, ideologica) alla potenza avversaria, l’Unione sovietica, allora ben più avanti nella già battezzata “space race”: erano sovietici il primo oggetto artificiale spedito in orbita, lo Sputnik, e il primo uomo, Jurij Gagarin, così come sovietica sarebbe stata la prima donna, nel 1963, Valentina Tereshkova, e tanti altri primati immediatamente successivi. Era già evidente come lo spazio portasse oltre i limiti del cielo la guerra fredda diventandone la declinazione e, per certi versi, una valvola di sfogo.
Così evidente che non furono in pochi, alla Nasa e fra gli addetti ai lavori, a preoccuparsi della scadenza sbandierata dal presidente: altro che «in questo decennio», al momento del discorso nessuno, negli Stati Uniti, era certo di riuscire nell’impresa, figurarsi portarla a termine entro una data precisa.
Poco prima del discorso, Kennedy era andato a Houston per visitare il centro per il volo umano, ancora in costruzione, aveva incontrato Wernher von Braun - l’ingegnere ex SS ideatore dei terribili missili V2, scappato dalla Germania nazista e di lì a poco padre del Saturno V - e quindi aveva raggiunto la Rice University, dove lo aspettava uno stadio stracolmo. Era il 12 settembre, la mattinata afosa di un mercoledì. L’anno accademico sarebbe iniziato di lì a poco, sull’erba e sugli spalti del campo di football c’erano tutti gli studenti dell’università insieme con quelli delle scuole di Houston.
Le foto impressionano ancora oggi: sono la testimonianza di come proprio il pubblico, a tratti entusiasta, abbia spinto il consumato oratore Kennedy a dare il meglio di sé, cercando di ispirare ma anche divertire i 45mila presenti. In 18 minuti, si contarono 11 applausi.
Il discorso era stato scritto da Ted Sorensen, lo speech writer del presidente, ma Kennedy, come confermato dal suo biografo, Douglas Brinkley, aveva apportato qualche aggiunta pochi minuti prima di salire sul palco, per tenere alta l’attenzione del pubblico. Tipo quella entrata nella storia, quando Kennedy domandò alla folla perché si scalassero le montagne più alte. O perché la squadra della Rice, gli Owls, giocasse contro quella del Texas, i Longhorns (decisamente più forte, confermano le statistiche sportive). Oppure il commento sulla temperatura che avrebbe dovuto sopportare la capsula al rientro nell’atmosfera terrestre, «almost as hot as here today» (calda quasi come qui oggi).
Dieci anni fa, in occasione della celebrazione del cinquantenario, uno degli studenti presenti allo stadio della Rice dichiarò che il discorso di Kennedy descrivesse «come gli americani vedevano il futuro in quei giorni. È un bellissimo discorso che contiene ricordi storici e cerca di diventare parte della storia dei nostri tempi. A differenza dei politici attuali, Kennedy fa appello ai nostri migliori impulsi, non ai peggiori».
Fra i punti tuttora attuali, Kennedy sottolineava – e implicitamente giustificava - la crescita del finanziamento al programma spaziale, che stava aumentando a un ritmo frenetico verso picchi che in seguito non sarebbero stati più raggiunti: nel 1967, dopo una crescita ininterrotta dal ’58, la Nasa arrivò ad assorbire quasi il 4,5% del bilancio federale. Oggi il finanziamento all’agenzia si aggira fra lo 0,4% e l’1% delle spese statunitensi, con un budget richiesto per il 2023 di 23 miliardi di dollari.
Potrebbe sembrare una cifra cospicua, per questo è interessante tornare alla Rice University con Kennedy, notando che dopo avere detto quanti miliardi sarebbero stati investiti nel ’62 in progetti spaziali, il presidente fece notare si trattasse meno di quanto speso dagli americani in sigari e sigarette.
Sarebbe opportuno ricordarlo ancora oggi, mentre critiche più o meno legittime ai falliti tentativi di lancio di Artemis 1 – a partire da quelle dell’Economist, lo scorso 28 agosto spietato nel giudicare Sls «un colossale spreco di denaro pubblico» - si alternano a professioni di fede entusiastiche, poco attente o del tutto insensibili alle implicazioni economiche e politiche di una missione tanto ambiziosa.
Anche per questo è un peccato che l’evento organizzato dalla Nasa e dalla Rice University per ricordare il 12 settembre di 60 anni fa non abbia il contorno di Artemis 1. Visti i tempi, una cosa sembra rimanere importante e comunque valida: non perdere mai la voglia di fare cose difficili.