Oltre al calcio, il capoluogo campano ha più di due millenni di storia ed eccellenze da promuovere. Perciò il primo cittadino è sicuro che, da campione d’Italia, può tornare a essere capitale: «Una città globale, simbolo del Meridione che vince»

Affinità, divergenze, cose che non ti aspetti da un sindaco campione d’Italia. Nel 1987, l’anno della prima affermazione, c’era un commissario prefettizio. Così Gaetano Manfredi si ritrova a essere il secondo – dopo Pietro Lezzi, nel 1990 – sindaco di Napoli durante la vittoria di uno scudetto. Il secondo-primo cittadino commenta così: «Una gioia unica e praticamente irripetibile trovarmi a rappresentare la città in questo momento. Perché è un posto che vive di calcio, gli abitanti e chi ama Napoli stanno vivendo un periodo che passa alla storia». Ma non si può fare, dice, un parallelo con la città di oltre 30 anni fa: «All’epoca venivamo dal dopo terremoto, c’erano stragi di camorra continue: quello scudetto somigliava a un riscatto per una comunità che voleva sentirsi protagonista. Ora no, protagonista lo è già e la vittoria è una consacrazione di una metropoli che è europea e competitiva».

Qualcosa lo accomuna a Walter Veltroni, che nel 2001 fu l’ultimo sindaco di un luogo (Roma) diverso da Torino e Milano a guidare la città campione d’Italia: è tifoso della Juventus. «Ma ora anche del Napoli», assicura. Tuttavia, a differenza dell’ex segretario del Pd, bianconero sfegatato, Manfredi non è esattamente uno fissato col calcio. E così si tende a credergli, quando giura che la nuova fede non è una conversione di facciata, ma un innamoramento. «Mi sono preso una cotta per questa squadra: ha donato emozioni straordinarie e ha causato una tale partecipazione dei miei concittadini che era difficile restare indifferenti», risponde nel consueto stile sobrio, con l’understatement che lo caratterizza e, inevitabilmente, lo allontana dal profilo del partenopeo tipo.

Che poi Manfredi propriamente napoletano non è, essendo nativo di Ottaviano e abitando a Nola, patria di Giordano Bruno e «luogo della tranquillità. A pochi chilometri, eppure così distante dalla folla della metropoli. Mi aiuta a decomprimere». Gli infiniti mondi teorizzati dal filosofo martire a Campo de’ Fiori se li ritrova tutti nella città che ha scelto di guidare, specialmente da quando ha vinto il tricolore: «Assistiamo a un’eccezionale festa di popolo, con gli eccessi tipici della nostra gente; ma sappiamo anche essere responsabili, Napoli ha una grande capacità di autogestione nel caos e l’amministrazione è pronta ad accogliere i milioni di persone che stanno venendo e verranno. Siamo in grado di gestire le emozioni e tutti i visitatori vivranno un’esperienza unica».

Al di là dei proclami, sovrintendere alla follia pubblica che corre tra vicoli e lungomare è la parte più difficile di questo momento. «Pier Paolo Pasolini diceva che il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, a Napoli vale ancora di più: abbiamo vari culti, da quello sacro e poi profano di san Gennaro a quello prima laico e poi sostanzialmente sacro di Diego Armando Maradona. È un tratto della nostra cultura millenaria con cui dobbiamo fare i conti, ma che non giustifica chi non si comporta bene. Del resto, il calcio è il grande totem della civiltà contemporanea e non mi sorprende che qui venga vissuto in modo carnale, passionale».

Insomma, quello che è stato rettore della Federico II e poi ministro dell’Università nel governo Conte bis, l’ingegnere dal registro compassato tende a dare razionalità all’euforia collettiva che vivono i napoletani, a credere in una prova di maturità della comunità. Ma le similitudini funzionano con Aurelio De Laurentiis? Manfredi, così posato. L’altro, un vulcano. «Abbiamo rapporti molto buoni e, si sa, il presidente è un uomo pirotecnico», ammette sorridendo. Che cosa li accomuna, dunque? «L’idea di una guida moderna e cosmopolita di amministrazione e squadra. Lui ci sta riuscendo con la società, io cerco di vincere lo scudetto per la Napoli città».

Poi le sorprese. Dalla fine della pandemia Napoli conosce un boom turistico vertiginoso, ora sarà ancora di più sulla bocca di tutti. Ma il sindaco non si accontenta e rilancia: «Erano già in programma eventi di primo piano, da Bono al san Carlo, a fine maggio, al concerto dei Coldplay di giugno allo stadio Maradona. Continueremo con una programmazione straordinaria, ora anche condita d’azzurro, per proseguire il racconto di una città internazionale e oggi trionfante». Perché a Napoli c’è il pallone, certo, ma pure più di due millenni di storia e un centinaio di eccellenze da custodire e promuovere. E così che da capolista può tornare a essere capitale: «Vogliamo che la cultura sia un aspetto identitario come il calcio, è nella storia di Napoli il ruolo di capitale culturale; abbiamo parecchio lavoro per migliorare l’offerta, non staremo con le mani in mano».

Perciò la conclusione del sindaco austero è un crescendo rossiniano: «Avevo fiducia nella città, per questo mi sono candidato. Adesso inizia a essere città globale, guida dei Sud del mondo: il Napoli dimostra che anche il Meridione può vincere, abbiamo solo cominciato».