Uno straniero a Parigi

Parigi, l’Olimpiade dove nessuno sa più perdere

di Riccardo Romani   10 agosto 2024

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Il Settebello che volta le spalle alla giuria è stato solo l'ultimo episodio di una serie di gesti che c’entrano poco con tolleranza, accettazione del risultato e rispetto reciproco che dovrebbero distinguere lo spirito dei Giochi dalla politica

Sandro Bazazde è il numero uno al mondo della sciabola e viene dalla Georgia. Quando qualche giorno fa durante il torneo Olimpico, ha perso il suo assalto contro l’egiziano Mohammad Amer, è uscito dai gangheri. Convinto di non aver subito la stoccata vincente del suo avversario, si è scagliato sulla giudice spagnola Vanesa Chichon, dicendole cose irripetibili. Si è persino rifiutato di abbandonare la pedana. Ormai chiamano la sicurezza. Si sa che gli schermidori sono fumantini, anche gli italiani hanno dato in escandescenze per un errore dei giudici.

 

Allora prendiamo il tennis, la disciplina delle buone maniere e del fair play. La polacca Iga Swiatek numero uno al mondo, a un certo punto pareva pronta a una rissa nei peggio bar di Cracovia piuttosto che a salutare la sua avversaria, la cinese Zheng, che l’aveva appena battuta. Ha rifiutato di stringerle la mano, ha ignorato l’arbitro e ha mandato a quel paese i cronisti che l’aspettavano. Peggio ha fatto la collega americana Emma Navarro, anche lei sconfitta dalla Zheng, che dopo la partita è sbottata: “Non ho alcun rispetto per la mia avversaria. È disgustosa”. Altro che spirito olimpico.

 

Quella che si chiude domani è stata un’Olimpiade ricca di risultati sorprendenti ma anche di eventi che c’entrano poco con tolleranza, accettazione del risultato e rispetto reciproco, valori scritti nel contratto che ogni atleta firma all’arrivo. Che dire di un altro georgiano, il judoka Guram Tushishvili che dopo aver perso col francese Teddy Riner, gli ha tirato un calcio tra le gambe. Espulso immediatamente. Ma pure il judo ce lo ricordavamo come un’isola felice tutta inchini e smancerie. Mica tanto, a sentire le urla gutturali di un’altra judoka, la giapponese Ryuju Nagayama, nei confronti dell’avversaria che l’aveva appena sconfitta.

 

E così veniamo al caso della pallanuoto di ieri. Tutto nasce dalla partita persa dall’Italia contro l’Ungheria nei quarti di finale. Secondo i nostri, il momento decisivo della gara sarebbe stata l’espulsione del giocatore Francesco Condemi. Mentre segnava il gol del 3-3, il ragazzo – secondo l’arbitro - avrebbe colpito un avversario. Ma non era vero. Nonostante la revisione al VAR, gli arbitri hanno annullato il gol ed espulso Condemi. Un errore. l’Italia ha poi perso ai rigori. I dirigenti hanno chiesto la ripetizione della partita ma la World Acquatic ha respinto il ricorso. 

 

Così ieri l’Italia è scesa in acqua nella gara valida per il 5° posto contro la Spagna, decisa a farsi giustizia da sola. Per prima cosa gli azzurri hanno ascoltato gli inni dando le spalle agli arbitri, un gesto di grave mancanza di rispetto. Poi, una volta in acqua, si sono schierati con un giocatore in meno per polemizzare riguardo l’espulsione di Condemi. Infine si sono rifiutati di giocare per 4 minuti, lasciando gli spagnoli segnare tre reti. L’Italia ha poi perso 11-9. La sceneggiata ha fatto il giro del mondo. Il Presidente del CONI Malagò si è dissociato. “I soliti italiani” è quel genere di battuta sempre verde, che ieri al Media Center di Parigi andava forte.

 

Esiste un problema legato alla sconfitta. Se una nuotatrice 19enne va in televisione a dire che il quarto posto all’Olimpiade è motivo di gioia e dall’altra parte c’è chi l’attacca frontalmente pensando che sia impazzita, il problema è culturale. Intanto c’è poca consapevolezza riguardo al lavoro estenuante richiesto per entrare in una finale olimpica. Arrivarci è un risultato straordinario. Dice bene Julio Velasco quando confessa la sua stanchezza nel sentir parlare dell’oro che l’Italia del volley non ha mai vinto. “Dovremmo concentrarci su quello che abbiamo non su ciò che manca. Qui ai Giochi ci sono tanti atleti bravi, si può perdere o vincere, quel che conta è dare tutto”.

 

Ma è possibile che Julio sia un inguaribile romantico, perché il mondo che ci circonda ammette solo due specie umane: vincenti e perdenti. Eliminati dalla casa o salvati. Cacciati dall’isola oppure premiati.

 

L’incapacità di accettare una sconfitta – e dunque lo sdegno diffuso per il perdente - non è una percezione campata per aria. È anche il risultato di un’indagine approfondita sullo stato di salute della sportmasnhip, la sportività, condotta durante i grandi avvenimenti agonistici dal 2017 a oggi. Lo studio della San Francisco State University rivela un aumento del 69% di casi di intolleranza e di contestazioni dopo le sconfitte. A Parigi questo trend ha trovato conferma in un numero record di incidenti, tipo il judoka che tira un calcio all’avversario.

 

D’accordo, le pressioni su questi ragazzi sono enormi, la differenza tra vincere e perdere un oro può segnare il tuo destino, ma fino a oggi l’Olimpiade era quel luogo in cui una serie di regole condivise garantiva che una sconfitta fosse una sconfitta, una vittoria una vittoria. Punto e a capo.

 

È il bello dello sport rispetto alla politica, ad esempio, un universo in cui un Presidente americano può scatenare il finimondo perché non accetta di perdere un’elezione. L’Olimpiade no, l’Olimpiade è un’altra cosa e seppure sovente assomigli tanto al mondo reale, incluse le sviste e qualche ingiustizia, si era tutti d’accordo sul fatto che il risultato si accetta con dignità e maturità.

Di certo senza fare certe sceneggiate in piscina.