Tra gli esempi più recenti c’è quello che riguarda Ocaliva (acido obeticolico), farmaco contro la colangite biliare primitiva, una rara malattia autoimmune del fegato che nei casi più gravi può portare anche alla morte. Approvato da Ema nel dicembre del 2016, con autorizzazione condizionata, è stato ritirato dal commercio dopo otto anni a causa del fallimento, nel 2021, dello studio clinico di quarta fase Cobalt: i pazienti arruolati per far parte del gruppo placebo avevano abbandonato il trial perché il medicinale era già sul mercato e non volevano privarsene.
Il risultato? Tanti ammalati – in Italia circa 18mila – si sono sentiti abbandonati e si sono scagliati contro gli enti regolatori. Prima Ema, l’autorità europea. Poi Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, che ha messo al bando Ocaliva nel dicembre scorso. «Le conseguenze? Una demonizzazione degli enti, in un gioco al massacro che spalanca spazi enormi alle forti pressioni delle Big pharma», dice Pietro Invernizzi, docente di Gastroenterologia all’Università di Milano Bicocca e direttore scientifico della fondazione Irccs San Gerardo di Monza.
Il punto è che il flop dello studio Cobalt è solo uno tra i tanti. Il 90 per cento dei farmaci in fase di sviluppo clinico non arriva infatti alla commercializzazione. Si impantana prima in un mondo dominato dall’industria farmaceutica, titolare di oltre l’80 per cento della sperimentazione. Per dirla con le parole di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, la medicina basata sulle evidenze sembra sempre di più «un sepolcro imbiancato». È un mondo quasi immobile, fermo dagli anni Ottanta, cristallizzato su metodi di studio che sono ormai solo una eredità del passato. Con buona pace del progresso medico e scientifico per il trattamento di tumori, malattie del sistema nervoso, patologie a carico dell’apparato cardiovascolare o del sistema immunitario.
Basta un dato per rendersi conto della paralisi: nel 2023 sono stati spesi a livello globale per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci ben 300 miliardi di dollari. Una enorme quantità di denaro per sviluppare solo 46 nuove molecole. Una débâcle che non è affatto un’eccezione: è la regola. «Parliamo di esiti molto deludenti che sono l’effetto della volontà terribilmente bizantina di continuare a ricorrere a studi clinici tradizionali», dice Remuzzi.
Questi studi, che sono quasi sempre randomizzati, si basano su un gruppo di controllo (placebo) e su un gruppo a cui viene somministrata la nuova molecola, spesso in doppio cieco: vale a dire che né gli sperimentatori né i pazienti sanno quale sarà il trattamento erogato, per evitare condizionamenti. «Solo che il processo di reclutamento è estremamente lungo e quasi mai è possibile arruolare gli ammalati nei tempi previsti – dice Remuzzi – Intanto passano molti anni».
Per accelerare, l’industria farmaceutica quasi sempre aumenta il numero dei centri di ricerca coinvolti nella sperimentazione. A volte sono centinaia, ciascuno con due o tre pazienti. Con il rischio di ottenere risultati fortemente disomogenei. «I trial randomizzati controllati sono ancora il gold standard ma presentano dei limiti soprattutto quando un farmaco è già disponibile sul mercato con un’autorizzazione condizionata», conferma Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe. Così, anche in tempi recenti, sono finiti in un vicolo cieco tanti trial.
Ha gettato la spugna Novartis con il farmaco Aliskiren (8.600 pazienti coinvolti) contro l’ipertensione arteriosa. Ha fallito la Big pharma statunitense Pliant Therapeutics che stava sperimentando una nuova molecola per combattere la fibrosi polmonare idiopatica. E ha fatto flop la multinazionale svizzera Roche nella lotta contro l’autismo e la malattia di Alzheimer. Va detto che l’autorizzazione condizionata è spesso inevitabile. Lo è stato per i vaccini contro il Covid 19: c’era una emergenza. Lo è quando gli studi clinici precedenti (ogni ricerca si compone di quattro fasi, da quelle condotte su pochi volontari sani alla cosiddetta fase post marketing per raccogliere informazioni quando il farmaco è in già in commercio) hanno dato risultati promettenti. Poi però gli ostacoli sono tanti. «E gli enti regolatori difficilmente escono dai binari di un nucleo duro metodologico – dice Invernizzi – Un nucleo che consente di restare in una comfort zone, anche per reggere l’urto dello tsunami di richieste che arrivano dall’industria farmaceutica e per rispondere alle aspettative delle persone ammalate».
Perché tante resistenze? Inerzia e abitudine, dicono gli esperti. A scapito dell’innovazione terapeutica. A tenere le redini della regolamentazione sono la statunitense Food and drug administration ed Ema. È quest’ultima, in Europa, a rilasciare le autorizzazioni condizionate, a cui si adeguano gli enti regolatori nazionali dei Paesi Ue.
Le cose non cambiano in Italia. Aifa, dal 2000 al 2023, ha dato il via libera a oltre 16mila sperimentazioni. Due anni fa (ultimo dato disponibile) ne sono entrate 611 nell’iter dell’approvazione. Di queste, il 98,9 per cento, quindi la quasi totalità, si basava su modelli tradizionali. Ben 212 riguardavano nuovi trattamenti contro i tumori, 68 contro malattie del sistema nervoso. E la stragrande maggioranza degli studi ammessi, vale a dire l’82,7 per cento, erano stati promossi dalle case farmaceutiche. Irrilevante, invece, la sperimentazione da parte dell’industria nel campo delle malattie rare (nel 2023 è stato realizzato un solo studio). Questo perché è un mercato di nicchia sul quale le aziende non investono nonostante gli incentivi pubblici: non garantisce buoni profitti. C’è poi il problema della scarsa trasparenza, con la mancata registrazione dei risultati di una sperimentazione. «Un problema noto, soprattutto quando gli esiti sono negativi e questo può compromettere la valutazione del reale rapporto tra rischio e beneficio di un farmaco», dice Cartabellotta.
Eppure le alternative potrebbero essere tante. Per esempio si potrebbe ridurre il numero dei pazienti evitando di avere un gruppo di controllo che assume placebo per mesi o anni, adottando uno schema alternato che prevede un periodo di trattamento attivo. «La durata è comparabile a quella di uno studio multicentrico con gruppo di controllo – spiega Remuzzi – ma tutti i pazienti avrebbero accesso a una fase di sperimentazione con il nuovo farmaco». Un modo per evitare la fuga degli ammalati dal trial. Oppure si potrebbe ricorrere a uno studio adattivo in cui la terapia si modifica man mano che si ottengono risultati. E quando un trattamento sembra essere più efficace di un altro si aumenta il numero dei pazienti per arrivare a dati statisticamente significativi. C’è anche chi propone di attingere ai real world data, informazioni su una patologia raccolte in un registro implementato in base alle regole nazionali ed europee. Registri come quello, in Italia, di Itaild, network di 70 centri specializzati nelle malattie autoimmuni del fegato. Anche per non delegittimare gli enti regolatori, catapultando la ricerca nell’anarchia. «Il modo in cui i trial sono disegnati e condotti deve essere rivoluzionato», avverte Remuzzi. Per ora la rivoluzione è lontana.