Circa 100mila persone, ogni anno, dal Sud si trasferiscono al Nord. È così dal 2001. A cambiare col tempo, però, sono stati i profili di chi decide di lasciare il Mezzogiorno per l’Italia centro-settentrionale: tra il 2001 e il 2021 i migranti laureati si sono più che triplicati, passando dal 9 al 34 per cento del totale. Nel 2022 sono diventati quelli che se ne vanno di più, se confrontati con chi possiede titoli di studio inferiori. «É la prima volta che succede nella storia delle migrazioni interne del nostro Paese», si legge nel report 2023 sull’economia e la società del Mezzogiorno presentato dall’associazione Svimez.
Secondo le anticipazioni del rapporto, tanti dei migranti laureati che lasciano il Sud - 9mila su 27mila nel 2021 - hanno seguito un percorso di formazione Stem. Così, come conseguenza, un terzo degli investimenti del Meridione nelle competenze scientifiche e tecnologiche si disperde. A discapito dell’industria, soprattutto delle filiere produttive strategiche a elevato contenuto di innovazione. Che sono fondamentali nel disincentivare la fuga dei cervelli, perché attirano lavoratori altamente qualificati, creano posti di lavoro di valore, offrono buone retribuzioni, generano reazioni a catena che favoriscono la crescita economica solida e duratura di intere aree del paese, arginano la working-in poverty.
Un tema, quello del lavoro povero, che porta molti occupati in Italia a non guadagnare nemmeno il necessario per vivere un’esistenza dignitosa. Sono 3 milioni, secondo la stima di Svimez elaborata utilizzando i microdati di Istat del 2020, i lavoratori che hanno una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi l’ora. La soglia che le opposizioni al Governo vorrebbero fissare al salario per essere legale, affinché non vi siano occupati costretti a vivere in povertà. Un milione di questi vive al Sud: il 25,1 per cento di tutti i dipendenti del Mezzogiorno guadagna meno di quello che viene considerato il minimo per essere uno stipendio degno.
Così, sebbene dopo la crisi post Covid-19, gli occupati siano tornati a crescere in tutta Italia. E anche al Sud, superando i livelli pre-pandemia (+ 22 mila rispetto al 2019), il peso dei contratti a termine resta altissimo: 22,9 per cento contro il 14,7 per cento del Centro-Nord. E la perdita del potere d’acquisto è più sostenuta, perché sono cresciuti di più i prezzi dei beni di prima necessità. Rendendo più difficile la vita di chi sceglie di restare.