Cultura
26 marzo, 2007

Romanzo Risorgimento

Dall'entusiasmo che seguì Napoleone ai nodi irrisolti dell'unità d'Italia. Cent'anni da riscoprire in un'opera inedita curata da Lucio Villari per 'L'espresso' e 'la Repubblica

Per molti italiani il Risorgimento rappresenta ancora, probabilmente, quella breve epoca, racchiusa in tre decenni, in cui si realizza il compimento dell'Unità d'Italia, con Roma capitale, all'insegna delle icone rassicuranti dei padri della patria, Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II. E invece no - come dimostra 'Il Risorgimento', l'opera inedita curata da Lucio Villari: se lo identifichiamo con la catena di eventi e trasformazioni che fanno dell'Italia una nazione, è un processo molto più lungo, che si sviluppa nell'arco di cento anni. Incomincia con l'irruzione di Napoleone nella Pianura Padana ('La più fertile campagna del mondo', che aveva promesso ai soldati francesi al momento di assumere il comando di un'armata affamata) e si conclude nel periodo della battaglia di Adua e delle proteste sociali che accompagnano il tramonto dell'Italia umbertina e l'uscita dalla scena politica di Francesco Crispi, l'ultima grande figura risorgimentale. Un blocco di un secolo, dunque, in cui la Penisola assiste a una sequenza di trasformazioni istituzionali che si incidono nella sua geografia politica, rimodellandone completamente i confini. E che Villari rilegge con gli occhi di oggi senza retorica e mettendo in luce i nodi irrisolti. Un rivolgimento intenso e profondo, che incorpora mutamenti economici, sociali e culturali vastissimi, destinati a scolpire durevolmente il profilo della nuova nazione.

I protagonisti dell'unità erano nati quando l'Italia era parte dell'impero di Napoleone: Mazzini (1805), Garibaldi (1807), Cavour (1810) erano i figli di una società ormai uscita dal bozzolo dell'antico regime. Vittorio Emanuele (1820) era invece figlio della Restaurazione, come la sua dinastia che, tornata sul trono di Torino, non dovette attendere a lungo per accorgersi che le lancette del tempo non potevano essere riportate indietro. Nella formazione degli artefici del Risorgimento c'era la traccia della rivoluzione francese e di Napoleone, un'eco delle speranze che l''albero della libertà', eretto dai soldati francesi nelle piazze italiane, aveva suscitato presso i giacobini nostrani e il clima di novità introdotto al seguito degli ordinamenti imperiali.

Ma sono tanti i motivi e le tendenze che convergono nel Risorgimento, in un accavallarsi e intrecciarsi di impulsi più e meno recenti, di sollecitazioni esterne e interne alla realtà italiana. Vi confluiscono il romanticismo e il costituzionalismo, il liberalismo e il radicalismo, l'aspirazione alla libertà e lo sviluppo dell'industria e del commercio. Un accumularsi di condizioni che si protrae dietro lo schermo opaco della Restaurazione e del legittimismo e che emergerà in piena evidenza con l'anno delle rivoluzioni, il 1848, quando la situazione precipiterà, in Europa come in Italia.

La rapidità con cui si giungerà alle guerre d'indipendenza, al loro esito e alla fondazione del Regno d'Italia è resa possibile da una preparazione tenace e spesso oscura. Un lavorìo condotto sotto la superficie, come quello svolto da un'attività cospirativa che aveva rotto con la tradizione carbonara per cercare, con la Giovane Italia, un radicamento nei gangli vitali e organizzati della società: è la dimensione politica repubblicana che attira il giovane Garibaldi, marinaio in servizio nella flotta sarda. Ma è anche un paziente tirocinio di formazione come quello di Cavour, fatto di letture e di viaggi di studio, oltre che di sperimentazione pratica. L'esilio politico cui è costretta la cospirazione repubblicana, al pari dell'apertura europea del liberalismo, conferiscono al primo Risorgimento una forte coloritura cosmopolita.

È la spinta sovranazionale a caratterizzare il disegno politico di Cavour, nello straordinario decennio 1851-61. È un vero miracolo italiano, quello che si realizza a partire da Torino, un'opera in cui si fondono assieme un'accortissima diplomazia europea e un azzardo politico quasi spericolato. Quando Cavour va al governo, il Piemonte è una piccola nazione con le finanze in dissesto dopo la sconfitta con l'Austria; alla sua morte, verso il Regno d'Italia c'è un'inusitata apertura di credito, avallata dalle cancellerie, ma anche dai banchieri d'investimento. Quando Cavour muore è il londinese 'Economist' a riservargli l'elogio funebre più eloquente, quello che si tributa al 'leader of an advancing age', a chi si è posto alla guida dei tempi nuovi.

Dall'altro lato, c'è la sorte paradossale di una classe dirigente che unifica un paese che non conosce, che non ha mai visto. Cavour, di casa a Parigi, a Ginevra e anche a Londra, non lo è altrettanto in Italia, fuori dei confini del piccolo regno sardo. Massimo d'Azeglio ha vissuto a Roma, ma a causa degli interessi artistici che ha coltivato. L'unificazione italiana non è stata preceduta come quella tedesca da un'operazione di amalgama: non c'è stato uno Zollverein, un'area doganale comune, in grado di spianare la strada all'unità politica e amministrativa.

Domenico Farini, inviato di Cavour nel Mezzogiorno all'indomani della magnifica avventura dei Mille, se ne uscirà con una battuta terribile, al momento di descrivere la realtà con cui è entrato in contatto: "Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile". Il verdetto sui costi sociali dell'unificazione è stato pronunciato.

In queste parole è implicita la piega che prendono le cose subito dopo la nascita del nuovo Stato. Domina una cifra oscillante fra il rude realismo dei governanti e il senso di delusione di chi si trova davanti a una creatura diversa da quella che aveva immaginato e che ne frustra le aspettative. Sono difficili i primi passi dell'Italia unita: a Sud subentra la guerriglia endemica e strisciante del brigantaggio, a Nord c'è il risentimento di coloro che si sentono traditi dalle scelte istituzionali. Testimoniano di questa disaffezione i morti fra i manifestanti torinesi che protestano contro il trasferimento della capitale a Firenze, mentre, nel resto del paese, si patisce la calata dei piemontesi, che vanno ad amministrare territori a loro estranei. Fra i burocrati che lasciano i luoghi d'origine al seguito del governo, c'è Giovanni Giolitti, destinato a una brillante carriera amministrativa prima che politica, nella cui giovinezza tuttavia non c'è impronta di entusiasmo risorgimentale.

Eppure, il tessuto sociale ed economico è vivacissimo. A volte le speranze tradite dalla politica servono a dischiudere altri percorsi: vi sono garibaldini, uomini della sinistra democratica e radicale che scoprono le possibilità offerte dal terreno fertile degli affari e costruiscono, all'ombra dei commerci e delle ciminiere delle fabbriche, nuove carriere economiche. Uno degli organizzatori delle giornate di Milano del '48, Enrico Cernuschi, diverrà banchiere d'affari a Parigi; persino l'inquieto Nino Bixio morirà in Oriente per inseguire un suo progetto commerciale. Intanto, il primo capitalismo italiano abbandona il liberismo cavouriano per farsi protezionista: ci vuole la difesa dei dazi doganali e l'aiuto dello stato per avviare la produzione d'acciaio e irrobustire l'organizzazione di fabbrica.

Il Risorgimento si prolunga così nell'aspirazione a costruire una nazione che sappia riscattarsi dalle sue angustie d'origine, come propone la Sinistra approdata al potere nel 1876, con la promessa di garantire al Paese una rappresentanza più larga. L'eredità risorgimentale finisce col giocarsi attorno alla possibilità di risolvere le contraddizioni che avevano gravato sugli esordi della nuova Italia. Per alcuni, questo significa la scommessa di una politica di potenza capace di spezzare i vincoli che trattengono il Paese. Un'intraprendenza economica perseguita senza remore e con spregiudicatezza si può sposare alle ambizioni coloniali e al progetto mediterraneo di un'Italia protagonista, secondo i piani dell'ex garibaldino Crispi. Per altri, invece, è la 'questione sociale' l'urgenza assoluta di un'Italia povera e contadina, che la crisi agraria spinge a battere le piste dell'emigrazione, verso l'Argentina o verso gli Stati Uniti. Le metamorfosi della politica riflettono queste incertezze e queste alternative, consumando definitivamente le identità del Risorgimento e creandone delle nuove, che le sostituiranno. Ma soprattutto il Risorgimento consegna alla contemporaneità una società vitale e disordinata, giovane e contraddittoria, che non ha ancora trovato il proprio equilibrio.

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