Cultura
7 ottobre, 2008

Garçonnière Bonami

Assenza di metodo e pensiero. Opere scelte in base ai gusti del curatore. E tanto arredo da casa borghese. 'Italics' a Palazzo Grassi

Il curatore di 'Italics' di Francesco Bonami si comporta da collezionista, o meglio da amatore dell'arte. Stende la sua lista di nomi da acquistare scegliendoli nel territorio dell'accessibile, quindi del comprabile: quello delle gallerie e dei privati - non dei musei - e li acquisisce per il suo Palazzo. Naturalmente non avendo alcun fine storico, seleziona quello che gli piace. Bello o brutto, giusto o sbagliato, segue il suo gusto, e una volta raccolte le opere che considera importanti per la sua identità patrimoniale, comincia ad arredare le stanze che possiede cercando, come in tutte le case borghesi, di trovare un tema che differenzi il salotto dalla camera da letto, il salone di rappresentanza dallo studiolo.

Eccoci a 'Italics', un titolo che rimanda a un carattere tipografico di facile lettura come del resto la mostra, che nel percorso di Palazzo Grassi arriva a comprendere: la sala degli Autoritratti (Penone, Salvo, Annigoni, Clemente, Boetti); la stanza degli Interni (Uncini, Gnoli, Clerici); la camera della Morte (Burri, Cuoghi, Battaglia); il salotto delle Forme aperte e chiuse (Lambri, Accardi, Cattaneo); il disimpegno delle Direzioni geografiche (Anselmo, Garutti, Ghirri); il boudoir del Design & Sesso (Basilico, Pivi); il salone delle Bandiere e delle Manifestazioni (Guttuso, Gennari, Schifano, Salvino, Balestrini, Baj); il Gineceo (Rama, Merz, La Rocca, Manzelli); la cucina del Colore (Ceroli, Emblema, Salvo) etcetera...

Una sequenza di stanze e stanzette arredate secondo il piacere personale che certamente non rappresentano le 'tematiche', forti o deboli, della cultura artistica in Italia. Un metodo che mi ricorda quando nel 1968, a Parigi, nella galleria di Ileana Sonnabend ho assistito alla richiesta di una ricchissima signora che voleva comprare solo quadri verdi, perché in tono con il suo arredamento. Una prospettiva selettiva che allora mi parve ridicola e che oggi non si può, solo perché adottata da Bonami, definire "coraggiosa" (Monique Veaute, amministratore delegato del Palazzo Grassi). Piuttosto appare pavida e pigra, perché l'immagine e il percorso di una ricerca (quella nata e cresciuta dagli sconvolgimenti linguistici degli anni '60) esigeva di essere indagata con serietà e impegno, con rischio analitico e scientifico, nelle sue aspirazioni e nei suoi contributi rispetto al contesto nazionale e internazionale. Per far questo bisognava però affrontare una lettura 'storico-linguistica' dove l'immagine era posta al centro di relazioni tra eventi sociali e culturali, tra valori e vortici visivi per dare luce ed evidenza ai nuovi modelli del vedere, scaturiti dalle diverse generazioni. Senza parlare di cause ed effetti, di paternità e di influenze, di inclusi ed esclusi, ma piuttosto di testimonianze estetiche che hanno una precisa specificità storica. E per ridare all'arte italiana vita e presenza seguendo il progetto della mia 'The Italian Metamorphosis' al Solomon Guggenheim Museum di New York, che si fermava al 1968 (mostra che Bonami chiama incautamente in causa, per ragioni di difesa, come antecedente da sviluppare), il curatore era indotto a lavorare su una presentazione dei punti nevralgici della storia dell'arte, dal 1968 al 2008, per definirne eventualmente il loro carattere 'profetico'.

Invece, nel creare la sua raccolta il curatore-collezionista Bonami ha evitato di analizzare il percorso genealogico dell'arte contemporanea con i suoi strappi, i suoi sconvolgimenti e i suoi procedimenti trasversali proiettati verso la sperimentazione e verso la restaurazione, verso la progressione e verso la regressione. Si è dedicato esclusivamente a un montaggio appiattente e scansafatiche del materiale visivo degli oggetti, scelti senza alcuna attenzione allo specifico temporale, ma solo al contenuto banale e ottuso (ritratto, sesso, morte, colore, interni, caricatura, cose da piangere e cose da ridere). Ha mandato in soffitta la storia dell'arte con la sua complessità per affidarsi al prodotto artistico, quello che piace tanto al mercato e alle case d'asta perché avulso da contesto e problematica. Ha dislocato l'opera d'arte senza metterla alla prova con il suo tempo, così da collocarla in un limbo, dove il vile convive con il coraggioso, il rivoluzionario si stringe al reazionario. Il tutto sotto l'ombrello della forma e del contenuto in una visione idealistico-crociana che evita di evidenziare le reciproche esigenze e posizioni estetiche e politiche, psichiche e antropologiche.

Un'operazione mediocre che, basata sulla vacua idolatria del feticcio artistico, riduce il lavoro d'arte a soprammobile e a decorazione. Una norma astratta e comoda per rimuovere gli estremi che rivelano le rotture e le fratture al fine di spingere la lettura della storia verso un territorio normalizzato dove non si pone alcuna tragicità, né alcun dramma. Isolando l'opera per venerarla nel suo valore visuale quanto collezionabile, individuale quanto spettacolare, Bonami ne azzera l'efficacia. Naturalmente la profezia dell'arte può essere messa in relazione con la sua conduzione conservatrice e con le sue differenziazioni generazionali, e questi avrebbero potuto essere aspetti inediti di 'Italics' per evitare una visione precostituita. Ma allora si sarebbe dovuto lavorare sul fatto che mentre la critica appartiene a un tempo e un'epoca precisi, l'oggetto dell'arte non si pone il problema del tempo. E poi era necessario analizzare la scissione e la schizofrenia di un mondo attuale che, come accadde tra Futurismo e Metafisica, tra Costruttivismo e Surrealismo, può lavorare sul pathos quanto sul virtuosismo tecnico, per proporre accenti spiazzanti, quanto strategie arcaiche, rassicuranti e pacifiche, ma sempre allucinatorie.

È forse contro questo processo di normalizzazione, isolamento e dissociazione delle vicende temporali e contro la rinuncia a una posizione critica, che alcuni artisti, da Kounellis a Paolini, si sono ribellati alla mostra. Perché il 'metodo Bonami' distrugge ogni dispositivo problematico e politico, formale e analitico rispetto al reale e all'arte. Svuota le energie vitali e storiche degli artisti, per sottoporle a un'idealizzazione e a un piatto ridimensionamento ornamentale delle loro funzioni radicali oppure conservatrici. In tal senso, la prospettiva di Bonami è certamente revisionista perché isola sia il loro discorso che quello delle più recenti generazioni, dal contesto di una dialettica e di un conflitto linguistico. 'Italics' è operazione scontata e sterile, di modesto contenuto scientifico, che taglia l'arte fuori della storia e fuori dalla sfera etica e morale. È un tentativo di venerare (siamo in casa Pinault-Christie's con la sua influenza teorica), il valore metafisico e sovrastorico dell'artefatto, che è qui separato dalla sua genealogia, quasi fosse un oggetto atemporale, asservito al grande e piccolo risparmio, come prodotto di lusso. Mentre è sempre stato, da sinistra quanto da destra, il risultato di uno 'scontro contro il presente'. La storia non è un calendario di pin up, né una cronaca di campioni dal vago valore estetico e formale, dove si esalta il mito del soggetto piccolo borghese e del suo capolavoro. È un territorio attraversato da agonismi e insurrezioni che non possono essere unificate, perché riguardano il movimento tumultuoso del vedere e del criticare che non è mai tranquillizzante, ma solo inquietante. Capisco che il 1968 è passato e siamo al 2008, ma la signora dei quadri verdi è ancora in pista.

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