Cultura
16 novembre, 2009

Doctorow in noir

Due fratelli uccisi dagli oggetti accumulati. Un caso di cronaca degli anni '40, metafora degli States di oggi. Parla il celebre scrittore statunitense

I miei romanzi nascono tutti da una singola frase. Anche 'Homer & Langley' è nato così. Inizia con le parole: "Sono Homer, il fratello cieco". Tutto il resto mi è venuto di getto a seguito di questa frase: l''io narrante' è un uomo che non ci vede e la sua vicenda è legata a un fratello, ovviamente non cieco...

Edgar L. Doctorow parla del suo ultimo romanzo: uscito da poche settimane negli Stati Uniti, è stato accolto da un favore che ha ravvivato la fama dello scrittore, appannata dalle ultime prove poco convincenti, e lo ha rimesso nel Pantheon dei grandi romanzieri americani.

All'apparenza il romanzo del settantottenne Doctorow, ambientato a New York come tanti dei precedenti, è un romanzo-verità: la storia dei fratelli Collyer vissuti in un'elegante palazzina di Harlem e negli anni '40 trovati morti dalla polizia, letteralmente sommersi da montagne di cianfrusaglie e spazzatura. Una discesa dal mondo privilegiato di rampolli di una ricca famiglia newyorchese a quello desolato di due eremiti che vivono rintanati fra cumuli di roba vecchia. "A me non interessava scoprire chi fossero veramente i fratelli Langley", spiega lo scrittore: "Volevo lavorare sulla loro immagine da mito popolare e dare la mia interpretazione di chi potessero essere stati questi due fratelli eccentrici al limite della demenza".

Doctorow ricorda che quando la polizia fu chiamata dai vicini dei Collyer a causa del pessimo odore che emanava da casa loro, trovò Homer morto di stenti e Langley sepolto sotto una valanga di rottami accantonati che gli era caduta addosso e che l'aveva intrappolato: "C'era una folla davanti alla loro palazzina che osservava la polizia mentre rimuoveva tonnellate di oggetti". Da quel ricordo ancora vivido è nato il libro: "Per scrivere non ho avuto bisogno di fare molta ricerca, perché dei fratelli Collyer mi incuriosiva l'identità mitica, non quella storica". La loro vicenda affidata alla penna di Doctorow diventa un'allegoria della vita contemporanea dove il consumismo disperato sotterra gli americani sotto cumuli di oggetti inutili. Homer a causa della sua cecità sembra essere il più handicappato dei due fratelli, ma a mano a mano che scorrono le 208 pagine del romanzo, appare chiaro che, pur nel suo mondo fatto solamente di buio, è il più equilibrato dei due. "Langley, che è stato anche in guerra, è quello che soffre di più", spiega Doctorow: "È il più tormentato ed è lui che accantona roba vecchia con l'atteggiamento maniacale di chi accumula in un modo che non ha senso. Non è un collezionista di cianfrusaglie. È un caotico aggregatore di cose utili e inutili: come Google".

Lo scrittore si riferisce alle insensate pile di giornali vecchi che coprono le pareti della casa dei Collyer, alle dozzine di lampadari, alle numerose macchine da scrivere alcune delle quali non funzionano neppure. Nel libro descrive l'insulsa collezione di aspirapolvere, molti trovati per strada fra la roba da buttar via, di pianole, e poi scatole e scatole e perfino una collezione di gatti maleodoranti sui quali Homer inciampa in continuazione.

Per Doctorow il tema centrale non è l'eccentricità estrema di questi due personaggi che da più di mezzo secolo sono entrati a far parte del folklore metropolitano di New York. "Al centro di 'Homer & Langley' c'è l'entropia del sistema americano che sta perdendo forza. La loro casa per me diventa un museo del nostro stile di vita". Non è un caso che Langley insista perché gli scuri rimangano chiusi notte e giorno e la porta serrata per evitare l'intrusione del mondo esterno. "Il loro mondo diventa sempre più limitato e isolato fino a sentire l'oppressione delle pareti di casa. Proprio come i muri di protezione che innalziamo sempre più alti intorno a noi. È una crisi non molto diversa da quella che viviamo nel nostro Paese da molti anni, accentuata sicuramente durante il periodo di Bush e Cheney", prosegue Doctorow scusandosi subito per questa affermazione. Non ha mai fatto mistero di essere un progressista del tutto opposto ai principi portati avanti da Bush. Ma ricorda ancora chiaramente la reazione negativa del pubblico quando nel 2004 si dichiarò apertamente critico della guerra in Iraq. Era stato invitato a fare un intervento alla Hofstra University di New York, ma quando si pronunciò contro la guerra gran parte del pubblico si alzò e se ne andò offesa da questa provocatoria presa di posizione. "Vivo nell'illusione che l'America sia la migliore speranza che ancora sia rimasta per l'umanità", dice: "Ma di casino ne facciamo tanto e mi sembra importante che tutti noi che pensiamo che l'America non sia perfetta facciamo sentire la nostra voce. Di cose brutte ne facciamo proprio tante".

Non che necessariamente fosse questo che Doctorow aveva in mente quando incominciò a scrivere il romanzo. Ancora una volta, come già in passato, il suo è un modo romanzato di criticare la realtà americana senza ricorrere a un tono pesante e didattico: "Io scrivo per scoprire che cos'ho da dire. Quando leggo le recensioni i critici mi aiutano a capire di che cosa ho voluto scrivere". Fa questa affermazione scherzosa usando un senso di leggerezza e giocosità che emerge ripetutamente nel corso del nostro incontro. Scherza per esempio sulle doti amatoriali di Homer che nel romanzo sembra dotato di una particolare sensibilità tattile che acutizza il suo senso del piacere. "No, non ho avuto bisogno di fare l'amore con mia moglie a occhi chiusi per calarmi nel personaggio di Homer a letto con la domestica Julia. In fondo quando scriviamo siamo sempre ciechi perché vediamo attraverso le parole. A me piace scoprire le cose insieme al lettore. In questo modo assumo contemporaneamente il ruolo di chi scrive e chi legge".

È questo senso della scoperta che porta Doctorow a non eccedere nel processo di ricerca che precede la scrittura di un libro: "Conosco moltissimi scrittori che fanno ricerca in modo estremamente approfondito al punto tale che non sono neppure più in grado di scrivere perché il peso dell'informazione che hanno accumulato blocca la loro creatività".

Doctorow invece dopo quasi cinquant'anni che scrive libri non sembra ancora a corto di creatività anche se ammette che dopo avere terminato un romanzo impiega almeno sei mesi prima di trovare una nuova vena di scrittura. "A volte anche un anno", aggiunge spiegando che per lui scrivere è come seguire un processo di dettatura silenziosa: "Mi siedo alla scrivania per mettere per iscritto pensieri che sono già formati. Io non sono altro che quello che li mette nero su bianco".

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