Lo si può accusare di tutto ma non di avere le idee confuse. Era lo scorso 11 gennaio e Mark Zuckerberg - dopo le ennesime modifiche alle politiche di privacy della sua creatura, Facebook - aveva rilasciato la seguente dichiarazione: "Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali on line. Le norme sociali cambiano nel tempo. Succede anche per la privacy". Così, di colpo un ragazzo di 26 anni - dall'alto dei suoi circa 500 milioni di utenti in tutto il pianeta (16 milioni in Italia) - spiegava al mondo intero che la privacy e il diritto alla riservatezza dei propri dati sono solo problemi del secolo scorso.
E per mostrarlo Zuckerberg si esponeva in prima persona, rendendo pubblico tutto il suo profilo, comprese le foto con gli amici durante alcune feste private. "Vedete, qual è il problema?", sembrava dire in quelle immagini l'ex studente di Harvard. Per lui la tutela della privacy non è una questione fondamentale. E il motivo di questa indifferenza lo ha ben sintetizzato Michael Arrington su "TechCrunch", autorevole magazine on line che si occupa di tecnologia: "Microsoft ha dominato il mondo della tecnologia negli anni Novanta grazie a Windows e Office. Google è stato il campione dell'ultimo decennio per come ha perfezionato il suo modello di business intorno alla ricerca. Sono ancora colossi. Ma stiamo entrando nell'era di Facebook".
E nell'era del "Libro delle Facce", Zuckerberg può permettersi di essere spericolato. Perché a criticarlo - o a cancellarsi da Facebook per protesta - sarà sempre una quota minima di utenti, un danno tutto sommato fisiologico ripagato largamente dai vantaggi che gli assicurano gli inserzionisti avidi dei dati che Facebook - meglio di chiunque altro - è in grado di raccogliere. Lo dimostra anche il "Quit Facebook Day", organizzato per il 31 maggio: una giornata in cui gli utenti insoddisfatti sono stati chiamati a lasciare il social network più popolato del mondo. Una manifestazione che ha coinvolto molto meno dell'1 per cento degli utenti di Facebook. Mentre dall'ultimo cambio di policy sulla privacy, circa dieci milioni di nuovi utenti si sono iscritti.
Facebook sta quindi ripercorrendo le principali storie di successo della tecnologia degli ultimi trent'anni (Microsoft, Apple, Google e così via): aziende che si sono fatte conoscere perché innovative e poi finite a gestire un monopolio di fatto. E per questo a suscitare l'antipatia e la preoccupazione di molti. Oggi, infatti, Facebook rischia di diventare quello che per molti è il cellulare: un oggetto la cui assenza ci taglia fuori da uno dei principali strumenti di comunicazione mondiali. "Alla fine chi è dentro difficilmente esce", spiega il blogger e giornalista informatico Paolo Attivissimo: "Il problema è che Facebook ha cambiato la sua filosofia e non è più solo uno strumento per conoscere nuove persone, ma anche un luogo dove le aziende si fanno un'idea di quello che piace o non piace ai consumatori. Per questo Zuckerberg non considera più l'utente una fonte di guadagno, ma una merce che deve soddisfare inserzionisti e società di marketing".
Sul settimanale "Time" Dan Fletcher ha addirittura scritto che Facebook ha modificato il nostro Dna sociale, rendendoci più abituati alla "trasparenza", più disposti a parlare con gli sconosciuti e a condividere le nostre informazioni private. Per questo sono in molti a credere (e a chiedere) che il social network non se ne approfitti del potere conquistato in questi sei anni di vita. Sia il Senato statunitense sia l'Unione europea, per esempio, hanno scritto a Zuckerberg chiedendogli di ripensare la propria politica di privacy che negli ultimi mesi ha visto le sue maglie allargarsi, rendendo sempre più pubbliche (ad altri utenti, ad aziende e fuori dalla stessa Facebook sui motori di ricerca) informazioni che prima erano private.
Uno dei casi che ha suscitato maggiore scalpore è stato quello della cosiddetta "Personalizzazione istantanea", un servizio così spiegato sulle stesse pagine di Facebook: "Abbiamo lanciato un programma sperimentale di piccole dimensioni con un gruppo di partner selezionati (attualmente Yelp.com, Microsoft Docs.com e Pandora. com) al fine di offrire un'esperienza personalizzata agli utenti che visitano tali siti. Questi partner possono accedere alle informazioni pubbliche disponibili su Facebook (ad esempio i nomi, gli amici e le cose che piacciono) per personalizzare l'esperienza degli utenti". Il punto, dicono i critici, è che le aziende che hanno accesso ai nostri dati non sono scelte dagli iscritti, ma da Facebook che da qualche mese ha inoltre tappezzato le sue pagine del pulsante "like"("mi piace") per conoscere sempre meglio i gusti dei suoi utenti.
Per questo molti ritengono che sia arrivato il momento di un nuovo patto tra utenti e Facebook che non passi solo per le regole di privacy scritte dai legali del social network statunitense, ma anche da un documento condiviso con le stesse persone che fanno parte di Facebook. Nei giorni scorsi, per esempio, la Electronic Frontier Foundation ha avanzato una semplice proposta, una carta dei diritti dell'utente in tre punti: "Essere costantemente informati sui cambiamenti delle regole sulla privacy e sapere chi ha accesso alle nostre informazioni"; "garantire che l'utente possa gestire, modificare ed eliminare i suoi dati"; nonché "uscire facilmente da Facebook senza lasciare alcuna traccia". Anche il giornalista Mark Sullivan ha stilato un decalogo dei diritti degli utenti (vedere riquadro a pagina 151).
Facebook si dice disponibile a parlarne: Zuckerberg ha dichiarato di voler fare in parte retromarcia sulla privacy. E Stefano Hesse, responsabile della comunicazione di Facebook per l'Europa, l'Africa e il Medioriente dice a "L'espresso": "Abbiamo commesso degli errori in buona fede. Stiamo tentando di rimediare, semplificando le nostre regole di privacy (finora complicate) e garantendo all'utente la massima libertà di decidere a chi mostrare i propri dati, considerando comunque che chi viene su Facebook lo fa per condividere qualcosa di suo".
Se Facebook riuscirà a superare questo ostacolo, non avrà però la strada spianata. Oltre alle beghe sulla privacy, infatti, sta montando un'altra polemica, nel lungo periodo forse più dannosa di quella sulla riservatezza dei dati: Facebook controlla (ed eventualmente censura) le informazioni che viaggiano nei messaggi privati. L'allarme è partito dalla rivista americana "Wired" ma anche "L'espresso" ha toccato con mano il grande fratello di Zuckerberg. Abbiamo infatti provato a condividere alcuni link: non si trattava di pagine illegali, ma solo di alcuni concorrenti di Facebook, per esempio MySpace. La risposta del sistema che ci impediva l'invio del messaggio era però sempre la stessa: "Alcuni contenuti di questo messaggio sono stati segnalati come offensivi dagli utenti di Facebook". Dagli utenti o da Facebook medesima?
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