Da decenni in tutto il mondo si scommette sul biodiesel, cioè sui carburanti ottenuti da fonti vegetali da utilizzare in alternativa al petrolio. Aziende, privati, e persino interi Stati come il Brasile hanno riconvertito i propri terreni agricoli per fare spazio a granturco, soia, mais, colza e canna da zucchero. Con ottimi risultati in termini economici (il Brasile l'anno scorso ha annunciato di avere raggiunto l'autonomia energetica e di avere azzerato le sue importazioni di petrolio), ma devastanti conseguenze sul piano agricolo e sociale.
Dal caro-prezzi che ha impennato in pochi anni il costo di beni di prima necessità come pane, pasta, zucchero e farina, all'impoverimento dei terreni adibiti a monocultura. Un recente report delle Nazioni Unite ha lucidamente osservato che il biofuel compete con la sopravvivenza del pianeta. E la proiezione che la domanda di biocarburante e di derrate alimentari potrebbe raddoppiare entro metà del secolo, proprio quando l'effetto serra potrebbe iniziare a devastare i raccolti agricoli, lascia intravedere scenari poco rassicuranti. A meno che non si riesca a sganciare la produzione di biocarburanti dalle coltivazioni agricole, come la ricerca mondiale tenta di fare già da una ventina d'anni. Finalmente con esiti positivi.
Perché l'ultima novità in fatto di energia totalmente verde (è il caso di dirlo) e rinnovabile stavolta non viene dalla terra né dal sole, ma dall'acqua. Anzi, per la precisione dalle alghe. Che con le loro performance hanno già stracciato tutti i diretti concorrenti.
Sono economiche e quindi più convenienti del petrolio, il cui continuo rincaro insidia l'equilibrio dell'economia mondiale. Crescono anche in terreni aridi (in appositi contenitori) e non squilibrano la produzione agricola, quindi sono meglio del mais e degli altri cereali usati finora per la produzione di biodiesel, che rischiano di affamare il pianeta per cibare le sue industrie. Non producono rifiuti, ma anzi puliscono acqua e aria, quindi sono più sicuri del nucleare, le cui scorie radioattive continuano a costituire un problema irrisolto.
Insomma, le alghe presentano rendimenti energetici altissimi e non hanno apparentemente controindicazioni: crescita rapidissima anche in condizioni climatiche avverse, zero impatto ambientale (il loro processo di crescita non produce CO2 ma al contrario ne assorbe grandi quantità), zero rifiuti tossici (dai residui vegetali, al contrario, si ricava idrogeno).
In Italia i primi esperimenti sono stati condotti dall'Enea sulle alghe comunemente utilizzate nell'acquacultura, come sostentamento per le larve di cui si nutrono i pesci. Alghe talmente piccole da essere invisibili a occhio nudo (in media misurano 5 micron), che raccolte in grandi quantità compongono un fango verdastro dal quale, una volta seccato, è possibile estrarre dal 30 al 50 per cento di lipidi (grassi) combustibili.
Una percentuale già molto significativa, che però può essere elevata fino a fare delle alghe una delle prime fonti energetiche rinnovabili del mondo. Per fare un raffronto, le microalghe hanno una resa in termini energetici quattro volte superiore alla canna da zucchero, dieci volte superiore all'olio di palma e addirittura 45 volte superiore all'olio di colza, che già molti italiani usano per riempire il serbatoio delle loro auto. «Il problema allo stato attuale è quello di identificare la specie più idonea per uso energetico», dicono gli esperti dell'Enea. I biologi stanno portando avanti esperimenti su specie di acqua dolce e salata, cercando di mettere a punto le tecniche che inducono nelle alghe una crescita più rapida e un maggiore aumento dei lipidi. Sul fronte tecnologico intanto stiamo mettendo a punto il sistema di produzione più adatto per il nostro territorio.
La sfida non è banale: per il fabbisogno nazionale di oli combustibili, con le classiche produzioni di biodiesel sarebbe necessaria un'estensione agricola pari almeno a due volte e mezzo l'Italia. Le alghe produrranno la stessa quantità di energia occupando solo frazioni di terreni attualmente incolti. In base agli esperimenti condotti finora, per avere un ordine di misura, con le coltivazioni di alghe si possono produrre ogni anno 30 tonnellate di biodiesel per ettaro, a fronte delle sei che si ricavano da una corrispondente estensione coltivata a palme da olio e dell'unica tonnellata ottenuta coltivando colza.
Uno studio dell'Università del New Hampshire afferma addirittura che tutto il carburante consumato dal sistema dei trasporti su gomma negli Stati Uniti potrebbe essere fornito da alghe coltivate in un'area desertica e anche priva di sorgenti di acqua pulita (le alghe si nutrono infatti di acque reflue) pari ad appena il 3 per cento del territorio americano destinato a coltivazioni agricole e allevamento.
Per ora i valori numerici relativi alla produttività delle microalghe si basano su impianti a basso costo e a sviluppo superficiale, come stagni e tubi di polietilene, spiegano all'Enea, ma alcuni studi dimostrano che si possono raggiungere produttività molto più elevate con impianti a sviluppo tridimensionale e con l'appropriato uso di luce artificiale. I fotobioreattori accelerano infatti la crescita delle alghe, moltiplicando la resa a parità di spazio impiegato.
I privati più lungimiranti hanno già iniziato a investire nei primi stabilimenti. Da Israele alle Hawaii (dove anche la Shell ha scommesso su un mega impianto per la coltivazione di alghe), dagli Stati Uniti alla Cina. Fino all'Italia. Dove le prime "centrali", ancora in fase di realizzazione e coperte da segreto industriale, produrranno non solo biodiesel, ma grandi quantità di idrogeno. Perché dalle microalghe, oltre ai lipidi necessari per la produzione di biodiesel, si ricavano anche proteine e soprattutto carboidrati da cui si può ottenere il preziosissimo idrogeno, il carburante perfetto. Lo dimostra una ricerca portata avanti congiuntamente dall'Enea e dal ministero della Ricerca scientifica, sulla base della quale stanno per prendere il via i primi impianti sperimentali.
Con la fermentazione batterica di un metro cubo di residui vegetali (ovvero di quello che rimane della "spremitura" delle microalghe) si producono da due a cinque metri cubi di idrogeno al giorno, e si può arrivare fino a 20 metri cubi. Se consideriamo che ci vuole meno di un metro cubo di idrogeno per produrre un kilowatt, il rapporto è estremamente conveniente, anche perché la fermentazione batterica è quasi a costo zero. Un bel passo avanti tenuto conto che fino a ora la produzione di idrogeno nella maggior parte dei casi richiedeva più energia di quanta ne generasse.
Ma, come si accennava, tra le altre virtù le alghe hanno anche quella di assorbire anidride carbonica nel loro processo vitale. Non quantità normali come tutte le specie vegetali, ma CO2 concentrata (fino al 15 per cento). La crescita rapidissima accelera infatti i normali risultati della fotosintesi: l'assunzione di anidride carbonica e l'emissione di ossigeno.
Infine, le microalghe crescono particolarmente bene nelle acque reflue ricche di fosfati e nitrati, il che ne fa dei perfetti filtri naturali per gli scarichi nocivi. Pensare che, fino a poco tempo fa, il migliore uso delle alghe erano il sushi e le creme di bellezza.