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Cultura
luglio, 2011

Ciak, qui si fa Arte

Guida alle opere più interessanti della Biennale di Venezia. Dove pittura e scultura diventano cinema

Non tutto è come sembra. Per esempio il titolo della 54ma Biennale di Venezia : "ILLUMInazioni". Scritto così ha tratto in inganno. Si è pensato ai riflessi della Laguna, all'animo internazional-globale, alla luce dell'arte, dell'intelligenza o di Tintoretto trasportato dall'Accademia ai Giardini. E invece era la luce del proiettore nella sala buia del cinema che diventa arte. O dell'arte che diventa cinema. Venezia dixit.

E non solo nei percorsi allestiti dal direttore della mostra ufficiale Bice Curiger. Corti-medio-lunghi-interminabili metraggi ("The Clock" di Christian Marclay che ha vinto il Leone d'oro, dura 24 ore), sono spuntati ovunque: nei padiglioni, tra gli eventi collaterali e persino in mostre che con la Biennale, a parte la coincidenza tempo-luogo, non hanno nulla a che fare (tipo Palazzo Grassi). Veri film. Niente a che vedere con l'immediatezza e la brutalità del video. Storie compiute e qualità d'immagine. Lenti carrelli, inquadrature studiate, puntigliosa costruzione del set, bella fotografia, soggetto, sceneggiatura, story board e titoli di coda. Si osano effetti speciali, ci si appropria dei linguaggi classici: flash back, flash forward, montaggi alternati.

"The Clock" è l'apoteosi. Lo si incontra nel mezzo del cammin, più o meno a metà dell'Arsenale, proiettato su maxi schermo e provvisto di poltroncione bianche dove affondare. Perché questo non è un film sul tempo, ma è il tempo che diventa film. Ci son voluti oltre un secolo di cinema e due anni di ricerche per trovarli tutti gli orologi filmati che segnano, minuto dopo minuto, lo scorrere di un giorno intero. Preciso e determinato da vero svizzero-americano Marclay li ha maniacalmente montati col cronometro in mano. E ha fatto il suo orologio, perfettamente funzionante. Ci si sdraia, si guarda il tempo che passa, si sa sempre che ora è. Ma dove siamo? Una mostra o una sala? Arte o cinema? Qual è il ruolo di uno schermo in un'opera? Niente di meglio che chiederlo a John Waters, principe dell'underground newyorkese papà artistico di Divine, inventore del film in odorama nonché giurato (altro segno dei tempi) in questa Biennale. Lui, super dandy che gira per i Giardini in completo gessato e baffetti tirati come Steve Buscemi in "Boardwalk Empire", risponde giulivo: "Cinema e arte? È la stessa differenza che passa fra osservare e guardare. Restare bloccato in una sala o camminare di fronte a un'immagine. Per chi crea, artista o filmalker, è distanza abissale. Looking or watching, capisce? Tutto diverso".

Mettiamola così. La video arte è looking; questa film-arte è watching. Anche se è chiusa in un solo quadro. All'ultimo piano di Palazzo Grassi di film-quadri ce ne sono almeno sette grandi quanto uno schermo (cm 282x400). L'autore si chiama Jonathan Wateridge è nato in Zambia, vive a Londra e sogna di stare a Hollywood. Per questo costruisce un fotogramma più che un'opera. Il set è perfetto, qualcosa sta per accadere, c'è il film nel film, siamo in un catastrofico o forse in un thriller, ma è certo che questa è suspense dipinta ad olio su lino. Looking invece per il padiglione dell'IILA-America Latina all'Arsenale, che si autocelebra in nome di Simon Bolivar e di 200 anni d'indipendenza. A differenza di noi italiani (che a giudicare dall'impastrocchiato padiglione abbiamo una bizzarra idea di come si rende onore alla patria) peruviani-cileni-argentini-brasiliani&C. sono riusciti a costruire insieme un lungo e autorevole corridoio, con video e film d'artista che si aprono come tante finestre sul mondo. Concettualmente è l'immagine di un popolo orgoglioso e speranzoso. Formalmente ha la struttura di una via Crucis in tempi digitali. Storicamente segna il passaggio al filmico del Continente dei murales.

Ma i latinoamericani non sono i soli cinematograficamente impegnati. "Primus inter pares" si segnala Israele. Ai Giardini proprio alle spalle dei Tintoretto c'è Omer Fast. Nato a Gerusalemme nel 1972 vive a Berlino, dove costruisce con mirabile sapienza i suoi bellissimi film ai confini della realtà: il pilota di un aereo telecomandato Predator che racconta in ritmici flashback la sua vita con amori, errori e bombe. O il rovesciamento di ruoli di "Nostalgia" dove si narra di un gruppo di europei pezzenti che chiedono asilo politico in un'Africa opulenta e razzista. Poi Elad Lassry (Arsenale) israeliano errante, ora a Los Angeles, che sovrappone foto e fotogrammi per catturare l'armonia di una danza e Dani Gal che da Berlino mette in scena con meticolosa ricostruzione di set e costumi la dispersione delle ceneri del criminale nazista Adolf Eichmann. Fortuna che almeno Sigalit Landau rimasta tranquilla in patria, può rappresentare il suo Paese nel padiglione nazionale sventagliando con potenti suggestioni visive, video mescolati a scultura e film in forma di installazione. Ed è looking più watching. E funziona. La conferma è nel labirinto costruito ad hoc da uno dei più bei padiglioni, l'austriaco, dove Markus Schinwald ha alternato il watching dei suoi freddi film stile Bond anni Settanta al chirurgico sguardo su dipinti Ottocento dove lui interviene ora per mettere la mordacchia a un gentiluomo, ora una protesi a un nudo accademico.

Qui l'equilibrio tra arte e cinema è perfetto, mentre si spezza a favore del film nel remoto e bellissimo lavoro di Anton Ginzburg (Palazzo Bollani) con titolo fascinoso "La forma del tempo: at the back of the North Wind" e tema ancor più fascinoso la ricerca di Hyperborea, l'Eden delle saghe nordiche, da parte di un artista-esploratore-antropologo che si rivela anche straordinario performer e regista. E che dire delle animate visioni apocalittiche di Tabaimo nel padiglione giapponese create ben prima dello tsunami? O dell'opera totale dello scomparso Christoph Schlingensief ex regista di film cult e teatro estremo che (non a caso) ha regalato alla Germania il Leone per il miglior padiglione? E infine il povero di mezzi ma non d'ingegno doppio film di Tayeba Begum Lipi,"I wed my self", dal Bangladesh? Ma a onor del vero il padre di tanto cinema è davvero colui che apre giustamente questa 54ma Mostra. Pittore in cinemascope che battezza l'avvenuto ricongiungimento dell'immagine. Mossa o ferma. Looking or watching. Lui, detto Tintoretto, la sintesi l'aveva già trovata 500 anni fa.

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