Apple inquina, Facebook anche e Twitter pure. Alcune delle aziende più moderne del mondo contribuiscono pesantemente al riscaldamento globale. E mantengono uno spesso velo di segretezza intorno all'energia necessaria a veicolarci quelle meraviglie che sono la musica digitale, i cinguettii delle nostre conversazioni e gli aggiornamenti di status. Sembra incredibile ma è proprio così.
A leggere l'ultimo rapporto di Greenpeace "Quanto sono sporchi i tuoi dati? Un'occhiata alle scelte energetiche che alimentano il cloud computing", presentato in occasione della Giornata della Terra 2011, sono ancora troppe le Internet company che usano l'energia proveniente dai combustibili fossili per il funzionamento dei propri data center: che continuano ad espandersi, crescere e divorare energia. Questo accade perché mentre aumenta la domanda per servizi e prodotti hi-tech l'enorme mole di dati e informazioni che produciamo - apparentemente immateriali ed ecologici, a basso impatto ambientale - richiede un immagazzinamento fisico e copiose fonti energetiche.
I data center, insomma, sono le fabbriche del XXI secolo. Ecco perché secondo Gary Cook, analista IT di Greenpeace, le dot.com globali dovrebbero giocare un ruolo importante nel passaggio a fonti di energia sicure e rinnovabili per evitare disastri: "Crediamo che gli utenti dei loro servizi non vogliano contribuire al riscaldamento globale e all'inquinamento da polveri di carbone quando caricano un video o modificano il loro status su Facebook", dice. Per questo motivo Greenpeace ha dato il via a una campagna per "rimuovere il carbone dagli amici di Facebook".
L'urgenza è evidente: i data center e i network di telecomunicazione, la nuvola su cui anche Facebook si basa, consumerà entro il 2020 la stessa quantità di energia di Canada, Francia, Germania e Brasile messi insieme.
Il 6 giugno Steve Jobs ha annunciato l'ultima novità di Apple, iCloud. Secondo il guru di Cupertino la "nuvola" Apple rappresenta "un modo completamente nuovo per immagazzinare e accedere ai tuoi contenuti". Però la sua fonte energetica è proprio quella che causa il riscaldamento globale e milioni di morti ogni anno: "Per accedere ai propri dati da qualsiasi dispositivo è necessario che la nuvola tocchi terra da qualche parte", dice il blogger e attivista Tom Dowdall. Nel caso di Apple, la nuvola tocca terra in North Carolina, un data center da un miliardo di dollari. Il centro consuma la stessa quantità di energia di 250 mila case, ma quel che è peggio è che funziona a carbone ed energia nucleare. Jobs ha risposto che il data center è "amico dell'ambiente quanto può esserlo un moderno data center": voleva dire che è energeticamente efficiente, cioè che non spreca, ma è difficile nascondere l'impatto ambientale di un posto che funziona con combustibili fossili.
Purtroppo la segretezza delle fonti di approvvigionamento impedisce talvolta di capire quanto inquinamento realmente causino le grandi aziende digitali. Per questo nel rapporto di Greenpeace si cerca il "digital footprint", l'impronta ambientale delle industrie hi-tech che non vogliono rivelare quanta elettricità consumano, quanto CO2 emettono e quante scorie radioattive contribuiscono a produrre.
Lo studio di Greenpeace ha misurato ogni compagnia su parametri differenti: l'indice di energia pulita usato, l'uso del carbone, la trasparenza, la scelta dei siti e la strategie per mitigare gli effetti dei consumi energetici. Secondo il rapporto metà delle compagnie usa combustibili fossili al 50 per cento invece di energie rinnovabili come il vento e il solare. Apple ha i voti peggiori col suo 54,5 per cento di uso del carbone, Facebook è seconda col 52,8, Twitter è terza poco sotto il 50. Anche Hewlett Packard e Ibm non ne escono bene. Ed è un peccato che l'industria IT pensi ancora che "ecologico" significhi soltanto "efficiente": "Come Yahoo e Google stanno dimostrando, le compagnie responsabili possono condurci verso la sicurezza e il risparmio energetico stabilendo una preferenza per l'energia rinnovabile e supportando forti politiche per una economia a basso consumo di carbone", dice Cook.
Ma non è facile: secondo Giovanna Sissa, dell'Università Statale di Milano, "gli enormi miglioramenti nell'efficienza energetica non tengono testa all'aumento della richiesta di uso di computer, Internet e cellulari e dunque il saldo dei consumi energetici del settore Ict è negativo".
Anche perché accanto al problema dell'energia (e intrecciata con questo) c'è anche un'altra questione importante, quella dello smaltimento di computer e cellulari. Basti pensare che per produrre un pc occorrono 1.500 litri d'acqua, 22 chili di sostanze tossiche e 240 di petrolio, una bomba ecologica. E i rifiuti elettronici (e-waste) crescono con la rapidità del turn over tecnologico. Perché questa questione (lo smaltimento dei vecchi pc) è intrecciata con il cloud computing? Perché il software ha una importanza cruciale nel "ricambio" di pc, essendo responsabile della precoce obsolescenza dei computer, il cui effettivo utilizzo è molto inferiore al ciclo di vita potenziale. Il cloud invece ci fa diventare indipendenti dai pc che usiamo. In altre parole, non dobbiamo più cambiare i pc ogni due anni. Ecco allora che il cloud computing (che pure resta "imputato" di inquinamento se le grandi aziende come Apple non iniziano ad approvvigionarsi con le rinnovabili) diventa invece un alleato importante dell'ambiente se si diffonde la cultura del riuso e del riciclo: i vecchi pc, rivitalizzati con software open source, possono diventare i terminali della "nuvola" senza bisogno di costruirne e acquistarne di nuovi.
Del resto proprio con Steve Jobs, negli anni Settanta, lavorava un geniaccio di nome Lee Felsenstein che in seguito ha inventato il computer a pedali, alimentato da una bicicletta. Con alcuni reduci della guerra d'Indocina, Felsenstein l'ha portato nei villaggi del Laos: robusto ed economico, il bici-pc ha consentito ai contadini locali di collegarsi a Internet, di uscire dall'isolamento, di conoscere il prezzo del riso e delle sementi sui mercati, di utilizzare le previsioni del tempo, di parlare via Skype con i parenti all'estero. Il tutto con soli sei watt di potenza. Felsenstein ha chiamato quel pc "Jhai", una parola laotiana con cui si indicano "cuori e menti che lavorano insieme". Quello di cui c'è bisogno perché l'era di Internet sia anche quella di un ambiente pulito.