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Sotto gli alberi di Palermo

Viaggio d'autore nella capitale siciliana. Come in un bosco, tra rami, radici, foglie. Ma anche tra sogni, desideri, e il richiamo alla dura realtà (Foto di Giulio Piscitelli per l'Espresso)

Credo sia venuto in mente a tutti, almeno da ragazzini; prima, dopo o indipendentemente dalla lettura del romanzo di Calvino: percorrere lo spazio nel quale si è cresciuti seguendo un tracciato vegetale. Dunque, proprio come il barone Cosimo Piovasco di Rondò, andarsene in giro lungo un percorso arborescente, attraverso quell'irradiarsi, a volte fitto a volte rado, di alberi piante arbusti cespugli tronchi mutili prati d'erba alta e aggrovigliata che contribuiscono a dare forma a un centro abitato, sempre senza mai toccare terra (rispondendo così a un'altra ineludibile immaginazione infantile: essere antigravitazionali, rapidi e lievi come un ninja che corre sulle foreste). A Palermo non ci sono foreste sulle quali correre veloci (forse solo una, ma ci arriveremo). C'è però la possibilità di immaginarsi un itinerario cittadino sub specie arboris, un itinerario rigorosamente pedonale connotato dai focolai di una vegetazione spesso ferocemente indocile e anarchica, altre volte conciliante e disciplinata, in ogni caso sempre in grado di raccontare un elemento specifico della città. Cosa pensare, per esempio, nel momento in cui percorrendo viale Piemonte, quartiere Libertà, si gira per viale delle Magnolie? Certo, il nome sembra tirato giù dalla toponomastica di Topolinia o di Paperopoli; in realtà osservando l'imbocco della via non c'è nulla dell'atmosfera pastello dei topi e dei paperi disneyani.

La visibilità diminuisce drasticamente e si fa ingresso in una galleria naturale formata dall'embricarsi volante dei rami che si allungano impetuosi dai fusti, una volta foltissima sotto la quale la luce precipita sul selciato in barlumi mobili. A colpire è il contrasto tra la solida leggerezza di quest'arco e la caparbietà delle radici che in alcuni punti sono affiorate cieche spaccando il marciapiede. Qualche anno fa, nell'impossibilità pratica di ricacciarle sottoterra, il Comune ha ripristinato il passaggio con passatoie e rampe metalliche. La sensazione è che si tratti solo di un armistizio e che tra poco le radici prenderanno di nuovo a fare pressione dal basso deformando anche le passatoie metalliche, il Comune tenterà di contenerne l'espansione tramite ulteriori rivestimenti e la piccola lotta di viale delle Magnolie, le radici contro il resto della materia, andrà avanti nel tempo.

A Palermo a volte non ci sono gli alberi tutti insieme ma c'è l'albero. Un solo albero, nella sua nuda elementare singolarità. Il Quartiere Matteotti - a due passi da viale delle Magnolie - fu in origine un quartiere costruito per le famiglie dei ferrovieri. Dunque un quartiere economico, operaio, di case popolari. Venne progettato ispirandosi alle città giardino teorizzate da Ebenezer Howard e fu inaugurato nel 1931 (si chiamava Quartiere Littorio). Su circa 54 mila metri quadri sorsero trentadue palazzine in stile Liberty e neobarocco. A causa delle imprevedibili evoluzioni della storia urbanistica - nonché di quella immobiliare e del gusto estetico - il Quartiere Matteotti, con le sue case su due o tre livelli, le proporzioni morbidamente logiche, i tetti rossi e le strade che si incurvano agognando forme plastiche, è diventato una zona della città molto ambita. A partire da quel senso di incoercibile decenza che lo contraddistingue, il Quartiere Matteotti è un'isola "buona" all'interno di una città nella maggior parte dei casi indifferente a se stessa. Dentro quest'isola buona c'è un'altra isola: lo spazio circolare di piazza Edison e, al suo interno, quello quadrangolare del Pozzo Arabo. Vale a dire una dozzina di metri per lato, una ventina di profondità, una scala priva di ringhiera che scorre semi-sgretolata lungo il perimetro interno della cavità. Sul un lato di questo spazio - che doveva essere una cava di tufo o una cisterna punica per cereali ma si è trasformato in un ricettacolo di rifiuti - c'è un albero solitario deforme e meraviglioso, un pino scoliotico che si allunga orizzontale per un paio di metri culminando in una chioma sfatta ma orgogliosa che non dista più di un metro dal terreno. È un albero comico e inconsapevole, se ne sta tra altre piante ma di fatto è la dimostrazione concreta di che cosa voglia dire essere soli, una panca naturale sulla quale riposarsi spiando con curiosità e sgomento l'inconscio palermitano che brulica sul fondo del pozzo. Il senso di armoniosa violenza che si è potuto avvertire percorrendo viale delle Magnolie si moltiplica nel momento in cui si raggiunge piazza Marina e si entra a Villa Garibaldi. In confronto a queste magnolie - ficus magnolioides - quelle di prima sono miniature di potenza, prodigi ancora in divenire.

Gli alberi di Villa Garibaldi - e in particolare quello radicato, è il caso di dire, nell'angolo della villa oltre il quale ci sono Palazzo Steri e la chiesa della Gancia - sono quanto di più simile a un animale sia dato riconoscere nel regno vegetale. Ci si avvicina cauti al groviglio di radici che scorrono sinusoidali per metri oltre il corpo centrale. Sembra che stiano dormendo un sonno rettile e che un rumore o un movimento improvvisi possano risvegliarle di colpo. Il sistema di radici colonnari che si allunga dall'alto verso il basso abbarbicandosi al terreno polveroso dà vita a ulteriori pilastri tramite i quali l'animale si sostiene. Gli si gira intorno, si cerca di comprenderlo stringendolo d'assedio, ci si allontana provando a contenerlo nello sguardo ma solo per rendersi conto che l'albero più grande d'Italia (ma non il più vecchio considerato che il ramoscello dal quale è nato, proveniente da un'isola del Pacifico meridionale, è stato piantato in piazza Marina nel 1863) è una sfida allo sguardo. Nel senso che gli occhi non si raccapezzano, recepiscono la massa ma non sanno da dove cominciare - se cominciare - a prendere atto del dettaglio, vale a dire di tutte le strutture particolari che lo compongono. Dunque si cerca di guardare e si prova un senso di smarrimento e di tenerezza. Davanti ad alberi simili semplicemente si sta. Oppure ci si arma di coraggio e gli si entra dentro, li si attraversa incuneandosi nelle pareti di viluppi o arrampicandosi aggrappati alle radici aeree in continua intersezione. Nel momento in cui si è al suo interno ci si rende conto di essere dentro un albero parlante, monologante che tramite le sue lingue molteplici non fa altro che raccontare. Ed è bello sentire di poter essere anche per poco, tra le radici mobili e i rami in insubordinazione, il contenuto della sua storia.

Adesso è il momento di lasciarsi la città alle spalle e imboccare la similforesta palermitana, vale a dire il Parco della Favorita, undici chilometri di viale che penetrando all'interno della riserva di caccia voluta nel 1799 da Ferdinando III di Borbone (quattrocento ettari di olivi lecci noci frassini e lentischi) connettono Palermo a Mondello; più che un percorso spaziale un'alterazione, per i palermitani, del flusso temporale. Perché imboccata la Favorita la percezione del tempo si modifica: quello urbano e feriale si contrae e sparisce e al suo posto sorge un'esperienza del tempo più brillante e festiva, un sottinteso di vacanza, un improvviso senso di desiderio. Percorrere la Favorita in estate è anche un modo per mettere tra parentesi il caldo più furioso assorbendo il fresco irradiato dall'arco ininterrotto degli alberi. A Mondello, poi, è bello percorrere viale Galatea camminando sotto i platani. Il cemento del marciapiede è bianco e istoriato di nomi incisi e di impronte umane e animali ed è cosparso dentro e fuori le aiuole di palline pelose marrone chiaro, le infiorescenze a capolino dei platani che si disfano sotto i passi e proiettano un pulviscolo morbido che imbrunendo l'aria dà la sensazione di rallentare i movimenti e fa di viale Galatea - complice un siero resinoso che incolla le suole costringendo a prendere atto della forma e del senso di ogni passo - una strada lunare. Per andare via da Mondello si può percorrere via dell'Olimpo e inoltrarsi per un rettilineo a modo suo monumentale. Nel senso che via dell'Olimpo è la sintesi tragica di tutto ciò che Palermo è e non riesce a non essere. Lungo l'aiuola spartitraffico si alternano palme decapitate e altarini di marmo o di plastica marmorizzata con un nome un cognome e due date, perlopiù ragazzi di vent'anni morti in incidenti col motorino. Questo avvicendarsi di morte umana e vegetale è diventato parte del quotidiano, si fa fatica ad accorgersene, ci si deve sforzare di percepirlo come trauma; in questa città si coesiste con ogni forma di morte, la si trasforma in tessuto urbano.

Interrompiamo qui questo breve viaggio, ma con un'ultima considerazione. A Palermo il patrimonio arboreo è testimonianza e sintomo: descrive l'intensità delle risorse e l'incontenibilità dell'impulso locale all'autodistruzione. Eppure - specialmente in una città così istintivamente ferina - si dovrebbe guardare a tutto ciò che possiede tronco rami e foglie come a un'occasione. Una forma di conoscenza. Perché l'architettura arborea palermitana reca in sé qualcosa di aereo e sospeso, un tempo ramoso e rampicante che contiene ed esprime una mitezza (sì, anche nell'espandersi feroce dei ficus c'è mitezza) profondamente avulsa da quella che è la vita di questa città.
Gli alberi, a Palermo, sono una tregua vegetale.

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