Carlo Petrini, ex calciatore tra l'altro di Bologna, Roma e Milan, è morto a Lucca all'età di 64 anni, dopo una lunga malattia. Condannato per lo scandalo delle scommesse del 1980, Petrini è stato il primo a rilevare il marcio nel calcio italiano, nella sua esplosiva autobiografia 'Nel fango di dio pallone', pubblicata nel 2000 da Kaos edizioni. Anche negli anni successivi Petrini ha continuato la sua battaglia, sia con altri libri-inchiesta sia attraverso confronti pubblici e nelle scuole. Pubblichiamo qui di seguito l'intervista che aveva rilasciato al nostro giornalista Alessandro Gilioli nell'estate del 2004. L'intervista - inedita - è stata realizzata per il 'numero zero' di una testata che poi non è stata pubblicata.
Petrini, di cosa soffre il calcio italiano?
«Della sua presunzione. Delle sue bugie. Del suo senso di onnipotenza. Il calcio si è crogiolato così tanto nella propria boria e nella propria impunità da trovarsi ora nudo e straccione».
Vale a dire?
«Per tanti anni il mondo del pallone si è permesso di tutto. Doping, fondi neri, scommesse, partite combinate, falsi in bilancio, accordi sottobanco. Di tutto. Nella convinzione che tanto nessuno l'avrebbe mai toccato. Erano, eravamo tutti convinti di essere al di sopra delle regole».
E poi cos'è successo?
«Poi si è cominciato a esagerare. L'arrivo degli sponsor e delle tv ha gonfiato i giri di danaro. Le irregolarità sono diventate l'abitudine. Si sono falsificati passaporti, si sono costruite fideiussioni bancarie fasulle con il bianchetto. E poi il doping: anziché diminuire è aumentato, perché si gioca molto di più e bisogna essere sempre in forma. Insomma, ogni anno se ne sono fatte di più dell'anno prima. Finché a un certo punto la bolla è scoppiata. O sta scoppiando. Un po' come Tangentopoli: quando si è esagerato nella corruzione, il sistema è scoppiato. Anche nelle porcherie, in realtà, ci vuole misura, ma il calcio è talmente convinto della sua intoccabilità da non averne tenuto conto».
Quando giocava lei quindi il sistema funzionava?
«Non era ancora esploso, ma faceva già schifo. Prendiamo il doping: a noi facevano dei punturoni per farci correre di cui neppure i medici sapevano le conseguenze. Quando finiva l'effetto dopante dormivi anche per terra da quanto eri stanco. Poi ci facevano infiltrazioni di cortisone per farci giocare anche quando eravamo rotti. Beh, se qualcuno si fosse ribellato allora, forse non saremmo al punto in cui siamo adesso»,
Perché nessuno l'ha fatto?
«Tutto il mondo del calcio ha fatto e continua a fare muro: 'Il doping non esiste', dicono in coro. E poi: 'I controlli ci sono, chi viene preso è una pecora nera, gli altri sono puliti'. Quello del calcio è un universo chiuso, in cui tutti i protagonisti conoscono la verità ma tacciono, perché sanno che se parlassero il castello di carte crollerebbe, e quindi perderebbero gli infiniti privilegi che hanno: soldi, status, fama, donne, macchine... E questo ormai vale per tutti: giocatori, dirigenti, procuratori, giornalisti, papaveri della Figc e della Lega. Si va avanti così, a mentire tutti insieme, sapendo di mentire. Sputando addosso ai pochissimi che osano dire la verità».
Qual è la situazione oggi?
«Nei campi di calcio si vedono dei giocatori paurosi, con gambe grosse come tronchi d'albero, che fanno 80 partite a stagione giocando due o tre volte la settimana. Non hanno nemmeno più il tempo di allenarsi eppure hanno cosce che non stanno dentro i pantaloni. Lo dico senza problema: oggi ci si dopa il doppio di vent'anni fa. C'è di tutto nelle farmacie dei club».
E come si evitano i controlli?
«I metodi sono infiniti, lo sanno tutti, dai giocatori di serie D ai vertici del Coni. Intanto i medici sociali sono capaci di dosare i farmaci molto bene, in modo da ridurre il rischio che i valori siano alti il giorno della partita. Poi, se qualcuno non è sicuro di essere al di sopra e per scalogna viene sorteggiato, se la può sempre cavare. Magari con un po' di urina pulita tenuta in una peretta nella tasca dell'accappatoio. Oppure si dice al medico che la pipì non viene e si apre il rubinetto per indurre lo stimolo, poi di nascosto si aggiunge un po' d'acqua all'urina per diluirla e abbassare i valori. E così via: devo ancora vedere un medico che sta 30-35 minuti con gli occhi puntati sui genitali di un calciatore, dopo la partita, per controllare che non aggiunga niente. Senza dire che ormai nelle farmacie dei club si sono specializzati nel fornire sostanze che coprono quelle dopanti, facendoti risultare negativo anche se ti sei pompato. In questo contesto, quello che stupisce, semmai, è che a volte qualcuno venga beccato. Ma per uno che ne prendono, centinaia sfuggono. E poi per forza si arriva alla cocaina».
Che cosa c'entra la cocaina?
«Diverse sostanze eccitanti e stimolanti, che moltiplicano le energie in campo, danno assuefazione. E, piano piano, a volte si arriva alla coca. Quando un giocatore diventa cocainomane di solito è già un dopato. Ma nessuno se ne preoccupa. Perché l'unica cosa che importa a quelli che stanno lì è che il circo continui a macinare denaro e fama. Guardi le filastrocche che i giocatori della Juventus hanno detto al processo di Torino, quello di Guariniello: 'Non abbiamo preso niente, solo integratori naturali'. Sanno benissimo la verità, ma gli hanno insegnato che per continuare a godere dei loro privilegi non devono dirla. Le stesse cose che avevano messo in testa a me: si fa questo ma 'fuori' non si dice, lo sappiamo noi ma 'fuori' non deve trapelare niente... E questa omertà, questo senso di impunità è il filo rosso che lega il doping con i fondi neri e i bilanci truccati».
Perché? Qual è il collegamento?
«Alla base c'è la stessa cultura dell'illegalità e lo stesso senso di onnipotenza e d'indifferenza alle regole che porta dirigenti, calciatori e procuratori a violare le norme, da quelle calcistiche a quelle dell'economia.Bilanci falsi, fondi neri e partite combinate sono assolutamente una realtà. Il calcio è questo»
Lei, a iniziare dal suo libro, ha raccontato tutto. Lo faranno anche altri?
«Può darsi, ma la regola non scritta è che si arriva alla verità solo su episodi del passato perché uno, finché è in attività, non parla. Vive in un mondo dorato, non vuole perdere tutto. Quei pochissimi che l'hanno fatto sono stati mandati via o marginalizzati. Al massimo qualcuno parlerà del doping, ma solo se inizia ad avere paura per la propria salute».
E' davvero questo il pallone?
«E' anche peggio. E' un mondo dove la verità è proibita, l'omertà è un obbligo, l'ipocrisia è una necessità»