Sacrale e volubile, il teatro è pratica che per sua natura rifugge dalla fissità della registrazione, sia essa affidata alla fotografia o al video, per rivendicare una vitalità che rinasce sulla scena sera dopo sera, replica dopo replica, fatta carne dagli umori e dalle emozioni dei suoi interpreti e dei suoi spettatori. A un giornalista che gli chiedeva cosa provasse a ricevere tutte le sere ventitré pugnalate, l'interprete del ruolo di Giulio Cesare rispose che all'aprirsi del sipario, a ogni replica, lui ignorava che sarebbe morto trafitto dai congiurati. Quando inquadra uno spettacolo e i suoi interpreti, la telecamera compie insieme un atto di dogma e di eresia: accredita per sempre l'immagine di una rappresentazione e al tempo stesso nega la sua natura effimera. È ancora teatro, una volta fissato in un'immagine televisiva?
E tuttavia è proprio quell'immagine a consegnare, a futura memoria, un sentimento, una sensazione altrimenti affidata al ricordo del suo spettatore. La ripresa televisiva di uno spettacolo teatrale assume una responsabilità analoga a quella del critico: dare testimonianza - onesta per quanto possibile - di un qualcosa che diversamente giacerebbe sepolto nella memoria del pubblico. Sindone profana di un evento altrimenti a rischio di oblio, documento ma anche emozione, il teatro in televisione è atto meritevole del servizio pubblico fin dai tempi della paleo tv. Le trasmissioni della Rai iniziarono ufficialmente il 3 gennaio del 1954 con "L'osteria della posta" di Carlo Goldoni nella fascia serale, appuntamento, quello con la prosa, destinato poi a diventare ricorrente - ogni venerdì - nei vecchi palinsesti. La scelta di iniziare i programmi con il teatro è stata significativa della vocazione umanistica della tv delle origini e ha permesso di conservare le immagini di spettacoli, regie, attori che appartengono alla mitologia del nostro teatro. Onore a chi cerca di riproporlo anche oggi su Rai Uno.
La collana dedicata al teatro di Luigi Pirandello in televisione presenta 27 allestimenti, registrati dal 1956 al 1996 e raccolti in 23 Dvd, con una introduzione di Andrea Camilleri, alcuni creati espressamente per il piccolo schermo, altri ripresi da spettacoli nati per il teatro. Quarant'anni di prosa in Rai da "Lumie di Sicilia" con Paola Borboni e Paolo Carlini diretti da Silverio Blasi e da "La patente", regia di Corrado Pavolini con Mario Scaccia e Piero Cornabuci, al "Liolà" di Maurizio Scaparro regista e Massimo Ranieri interprete con Regina Bianchi e al "Come prima, meglio di prima" nella messa in scena di Luigi Squarzina.
Tra i registi spicca il nome della scrittrice americana Susan Sontag, che diresse per il Teatro Stabile di Torino e poi per la Rai nel 1981, Adriana Asti in "Come tu mi vuoi" forse per rimediare ai danni prodotti da George Fitzmaurice autore nel 1932 di un brutto film hollywoodiano tratto dal testo pirandelliano ma deturpato dal lieto fine e che pure aveva il valore aggiunto di due divi come Greta Garbo ed Erich von Stroheim. Nelle sue note di regia la Sontag scriveva che i suoi interessi si erano rivolti "al progetto visuale, alla poesia della formalità gestuale, alla musica delle idee".
Sulle pagine de "l'Espresso" del 15 luglio del 1979 Leonardo Sciascia incontra con me la Sontag per discutere di "Come tu mi vuoi". Per l'occasione Sciascia si è preparato. "Ho riletto stamattina questa commedia. Non la leggevo da dieci anni. Dieci anni fa il problema centrale era quello dell'identità. Oggi mi pare che sia il problema dell'identità femminile". La Sontag conferma. "Non è un caso che sia una donna la protagonista. Non è Enrico IV alla ricerca della propria identità. L'Ignota non è semplicemente qualcuno che forse è folle o che ha perso la sua identità. È una donna, una donna che tutti vogliono possedere". Lo scrittore siciliano chiede poi alla collega americana come vuol mettere in scena il testo e Susan Sontag risponde: "Mi pongo molte domande. Voglio rispettare il testo perché non mi interessa fare una fantasia "da" Pirandello.Voglio seguire il testo perché ne viene fuori una sorta di follia del linguaggio, tutti i personaggi parlano continuamente, c'è una specie di isteria della bocca".
Un regista di quasi esclusiva formazione televisiva, grande specialista di romanzi sceneggiati, Anton Giulio Majano, si è misurato con Pirandello nel 1967, "Tutto per bene" che è l'occasione per vedere e ascoltare un grande attore, Renzo Ricci (il suocero di Vittorio Gassman), a metà tra il mattatore del teatro "all'antica italiana" e l'attore moderno che deve confrontarsi anche con uno strumento espressivo nuovo come la televisione.
Dramma di curiosa attualità quello vissuto dal protagonista Martino Lori, anche lui - nel 1920 - caratterizzato da quella candida e disarmante inconsapevolezza che sembra un effetto collaterale dell'attività politica nel nostro Paese: case con vista sul Colosseo, vacanze in alberghi a cinque stelle pagate all'insaputa del beneficiario. Pirandello lascia il suo protagonista Martino Lori del tutto ignaro delle ragioni della sua brillante carriera politica - consigliere di Stato e capo di gabinetto - dovuta alla generosità sessuale della moglie piuttosto che alle sue doti di statista. Accanto a Renzo Ricci, nel ruolo della figlia dell'ignaro politico, un'inattesa Raffaella Carrà.