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Cultura
settembre, 2012

E per cena muschio e formiche

Ma anche grilli fermentati, licheni, radici varie e pelle di maiale croccante. Sono gli ingredienti usati da uno chef danese. Oggi considerato tra i migliori del mondo. Abbiamo provato le sue ricette

Sì, vale la pena partire per Copenaghen, dopo aver pazientato mesi in lista d'attesa per un tavolo al Noma. Non perché sia "il miglior ristorante del mondo" secondo il perverso meccanismo dei 50 World's Best Restaurants finanziato da San Pellegrino, ma perché un pranzo da René Redzepi è un'esperienza anche gastronomica di prim'ordine. Anche gastronomica, ma innanzitutto di cultura, di emozioni, di scoperte.

Certo, quando questo ragazzo di madre danese e padre macedone, oggi trentacinquenne, aprì il suo ristorante nel 2003, forte di un tirocinio breve ma intenso culminato nelle cucine di Ferran Adrià, non immaginava di succedere otto anni dopo allo stesso Adrià al vertice dei 50 Best, di trovarsi sulla copertina di "Time" come portabandiera di una nuova, nascente, corrente gastronomica, la "cucina del Nord". Non lo immaginava perché è e resta un uomo di disarmante semplicità e spontaneità, incapace di atteggiarsi a celebrity chef, abituato a misurarsi giorno per giorno con il successo e con tutto ciò che il successo comporta. E poi perché, intelligente e realista, crede sì fermamente in ciò che fa, ma non pretende che la nuova "cucina del Nord" rappresenti un modello universale. Eppure il Noma è un modello perfetto, nel suo genere, ma probabilmente irripetibile proprio per lo spirito che lo anima ancora prima che per i piatti che vi sono serviti.

Ha costruito, Redzepi, una rete di fedeli e affidabili fornitori/ricercatori di tutto ciò che serve alla sua cucina. Ha messo insieme e guida, con l'esempio in prima persona più che con il carisma, una vera e propria comunità d'intenti e di filosofia, se non di vita, fra le decine di collaboratori di vari paesi ed esperienze cui ha saputo trasmettere le idee-guida, le scelte tecniche, la linea di comportamento che rendono il Noma una macchina perfetta ed esemplare. È sufficiente attraversare i grandi spazi - lindi, luminosi, ordinatissimi - dove vengono lavorati i prodotti che giungono dai mercati prima di passare nelle cucine e, più ancora, quelli dove il piccolo reggimento prende le pause e consuma i pasti, per rendersi conto di quanto sia coinvolgente e convincente il Noma-style, anni luce distante dal clima da caserma che si respira nel backstage di tanti ristoranti anche blasonati.

Il ristorante, poi, è spoglio, essenziale, eppure elegantissimo, il nuovo pavimento di legno chiaro, le grandi travi, il grigio che domina, i tavoli rotondi senza tovaglia, le sedie (comode: si resta a tavola oltre tre ore) in parte rivestite di pelli grigie e bianche, la lounge ospitale in fondo alla sala che invita a indugiare per prolungare le sensazioni evocate del pranzo. L'accoglienza ti spiazza, a partire dal sorriso aperto con il quale, presentandosi uno a uno e tendendoti la mano, ti vengono incontro i ragazzi della cucina, gli stessi che poi si alterneranno porgendoti i piatti da loro stessi assemblati e descrivendoli con dovizia di dettagli. Nessun affanno, nulla di sacrale, laboriosa serenità. Codificata è soltanto la cronometrica scansione dei tempi di servizio dei piatti e dei vini (tutti rigorosamente "naturali") o dei diversi succhi di verdure e di frutta che li accompagnano. E naturalmente il cibo, un inno convinto, fermo, coerente, ai prodotti locali: pesci, crostacei, alghe, legumi, ortaggi, cereali, erbe, radici, licheni, muschi, insetti. Un cibo, dei piatti, che sono all'evidenza un atto di fede, una scelta ideologica e programmatica, prima che delle realizzazioni tecnicamente irreprensibili.

I "migliori del mondo"? Neanche per sogno. Rappresentano quanto di meglio sia oggi possibile assaggiare in una cucina che - là, in quell'antico magazzino del porto di Copenaghen - prende corpo, ponendosi e rispettando precisi limiti culturali e geografici nell'acquisizione delle materie prime impiegate. Una cucina sincera, onesta, gioiosa, vivace e varia nei colori, nelle consistenze, nei sapori, che si materializza in una lunga sequenza di appetizer (una quindicina) da gustare senza posate, in sette o otto "piatti" più lavorati, in un paio di dolci. Dalla cozza la cui valva è ricostruita e quindi edibile alla pelle di maiale croccante, dal fegato di merluzzo (dal sapore intensissimo, violento l'impatto) alle uova di quaglia marinate e affumicate, dalla composizione di carote e ravanelli in un vasetto con la loro terra che terra non è ma una piacevole crema di formaggi ed erbe, dal bignè fritto in cui è infilzato un pesciolino ai gamberi d'acqua dolce con una squisita salsa composta con le teste dei gamberi stessi e aceto di mele, dalle formiche vive deposte su una crema solida di yogurt, nocciole e segale al paté di grilli fermentati (il sapore è indefinito, resta la domanda: che sapore hanno i grilli?) avvolto in una foglia di citronella e granita di nasturzio; per passare, fra i piatti più cucinati, allo scampo scottato servito su un macigno con crema di ostriche e cetriolo, all'uovo da cuocere (un po' naïf) al tavolo sulla ghisa rovente e da guarnire con il solito profluvio di erbe e fiori, delle - finalmente quasi "normali" - animelle brasate con erbe amare, sedano e funghi.

Tutto da buono a ottimo, in un balletto senza pause né cadute, da godersi per quel che è, senza enfasi né pregiudizi ma, questo sì, storicizzando, contestualizzando l'approccio con una cucina di un'identità "diversa", lontana da ogni altra esperienza tradizionale o contemporanea, occidentale o orientale, la cucina del Nord, appunto. Qui sublimata a un livello del tutto inimmaginabile prima che René Redzepi la rifondasse con anni di ricerche e di esperimenti, che continua a portare avanti nel Lab Food, una zattera ancorata a pochi metri dal ristorante, dove tra sofisticate apparecchiature lavorano a tempo pieno quattro giovani esperti di tecnologie dell'alimentazione.

Grilli e formiche? Laicamente li assaggi: non sono né buoni né cattivi, non rappresentano il focus della cucina di Redzepi, né mai entreranno nella storia della gastronomia, ma non è il caso di ironizzare o di scandalizzarsi più di quando ci si trova nel piatto le rane, le lumache, le oloturie, i nidi di rondine… E certo nessuna persona intelligente può ridurre la cucina del Noma alla manipolazione di grilli e formiche, così come nessuno andrebbe al Noma soltanto per assaggiare grilli e formiche. È allora il Noma "il miglior ristorante del mondo"? Nella sua tipologia e per i valori che esprime, sì. In assoluto, no, non ha senso affermarlo.

Solo il gioco ben organizzato da una ristretta ma efficiente lobby di critici e p.r. lo ha portato in vetta ai 50 Best. Quella stessa lobby che individua nello Chateaubriand di Inaki Aizpitarte il miglior ristorante di Francia. E se lo Chateaubriand fosse il miglior ristorante di Francia, certo il Noma potrebbe essere definito il miglior ristorante del mondo… In realtà è sì, e di gran lunga, il più affascinante e originale progetto di alta ristorazione mai comparso a nord dei Paesi Bassi, ma è ben difficile, e forse neppure auspicabile, che la sua cucina possa inaugurare una nuova corrente destinata a far proseliti fuori della Scandinavia, proprio per la natura dei prodotti sui quali è costruita. Gli stessi che per secoli sono stati alla base della cucina di pura sopravvivenza di paesi dove ancor oggi nelle case private come nei ristoranti di tutte le categorie è di fatto problematico "mangiar bene", almeno secondo i canoni dei paesi di più evoluta cultura gastronomica, dall'Europa meridionale all'Estremo Oriente.

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