San Francesco la trattava con confidenza e la chiamava “sorella”. La maggior parte dei non-santi tuttavia le affibbierebbe volentieri altri attributi e la considera comunque un argomento tabù, qualcosa a cui si preferisce non pensare e di cui meno si parla, meglio è. Per alcuni ingegneri della Silicon Valley e dintorni, invece, la morte è semplicemente un problema, un’equazione che per ora non torna. Quindi da risolvere.
Fra chi si candida ad affrontarla ha fatto il suo ingresso da poco un nome di peso: quello di Google, il cui cofondatore Larry Page ha annunciato a settembre l’avvio di Calico, una nuova società controllata da Mountain View, la cui missione sarà quella di sviluppare soluzioni per allungare l’aspettativa di vita.
Non è chiaro, al momento, quali siano esattamente i piani di Page e soci, ma l’annuncio è stato accolto con fervore dalla piccola ma battagliera comunità di ricercatori che lavorano da tempo nel settore “immortalità e affini”: «Penso che sia fantastico che Google abbia investito in questo campo», dice a “l’Espresso” il biochimico Aubrey de Grey, responsabile scientifico della fondazione di ricerca Sens (acronimo di Strategies for Engineered Negligible Senescence).
«Questo aiuterà enormemente ad accrescere la credibilità del nostro lavoro». Anche se, precisa de Grey, «personalmente sono contrario all’utilizzo del termine “immortalità”, visto che significa “non morire mai”, per nessuna causa. Io non lavoro per impedire che la gente venga investita da un camion, ma per allungare l’aspettativa di vita e la sua qualità negli anni».
Alla base della ricerca di Sens, uno degli enti più in vista nella lotta alla “nera signora”, c’è l’idea che, invece che concentrarsi sulle cause dell’invecchiamento (come fa la ricerca scientifica tradizionale) sia meglio intervenire sugli effetti. «Credo che evitare i danni dell’età possa mantenere il corpo nelle condizioni fisiche e mentali di un giovane adulto per un tempo indefinito, una volta elaborati metodi di manutenzione sufficientemente approfonditi», afferma de Grey. Secondo lui, esistono sette principali cause di invecchiamento (rifiuti cellulari ed extracellulari, mutazioni dei cromosomi e dei mitocondri, cellule morte, cellule dannose, legami extracellulari fra proteine): una volta compreso come aggiustare i guasti prodotti da ciascuna di esse, sarebbe possibile, in teoria, sottoporsi a periodici interventi di “restauro” per vivere bene e molto più a lungo.
Non sarà l’immortalità nell’accezione più piena, però in molti ci metterebbero la firma. Ma è fattibile? Nel 2005 la rivista del Mit “Technology Review” ha sottoposto la questione ai lettori, mettendo in palio 20 mila dollari per chiunque riuscisse a dimostrare che il “metodo” di de Grey fosse talmente sbagliato da «non essere meritevole di un dibattito colto». Nessun concorrente è riuscito ad aggiudicarsi il premio, sebbene metà della somma sia stata comunque assegnata a una confutazione particolarmente incisiva. I critici comunque bollano le teorie di de Grey come “pseudoscienza” e sottolineano la mancanza di una formazione accademica tradizionale in campo gerontologico da parte dell’inventore di Sens. Il quale va per la sua strada, sostenuto finanziariamente soprattutto da donazioni di ricchi imprenditori sedotti da affermazioni come quella, sempre di de Grey, secondo cui «esiste il 50 per cento di probabilità che la prima persona che vivrà mille anni oggi ne abbia sessanta».
In questa corsa all’estensione della vita oltre i suoi vecchi confini è anche tornato di modo un sistema che la fantascienza coltiva da anni ma che di recente ha fatto molti passi in avanti tecnologici: la crionica, ovvero la preservazione di organismi viventi a basse temperature. Si immerge un corpo in azoto liquido a meno 196 gradi, appena dopo la dichiarazione di “morte clinica” e si spera che in un futuro più o meno remoto la scienza sia in grado di “riparare il guasto” mortale e quindi riportare l’individuo in vita.
C’è chi ci crede e sottoscrive un abbonamento mensile per essere sicuro che quando il momento verrà non si verrà lasciati ai vermi. Tra le aziende che offrono questo servizio la maggiore e più nota è la Alcor Life Extension Foundation, che ha sede a Scottsdale, in Arizona. Chiede 200 mila dollari per una preservazione completa oppure 80 mila per l’opzione “neuro”, con cui si iberna solo il cervello. Si paga in rate mensili quando ancora si è in vita, oppure intestando la polizza assicurativa all’azienda. Attualmente vi sono 117 deceduti conservati in speciali capsule.
I progressi nei trattamenti per preservare il corpo sono continui: in particolare è stata messa a punto una tecnica che impedisce la formazione di cristalli durante il processo di raffreddamento, in modo che le cellule non vengano danneggiate. Tuttavia allo stato attuale l’idea che sia possibile far rivivere un corpo umano ibernato dopo la morte si basa soprattutto su un atto di fede nei progressi futuri della scienza.
«Io mi sono iscritto al programma», dice Anders Sandberg, ricercatore dell’Istituto per il Futuro dell’Umanità di Oxford: «L’ibernazione è una scommessa meritoria: anche considerate le scarse probabilità di successo, il valore che ne ricavo in termini di speranza è maggiore del costo mensile che pago».Già. Però «bisogna chiedersi quale incentivo avrebbero le generazioni future a riportare in vita qualcuno con cui dovrebbero condividere le risorse del pianeta», commenta John Harris, direttore dell’Istituto per la scienza, l’etica e l’innovazione dell’Università di Manchester.
Ad ogni modo, la soluzione “neuro” della Alcor è scelta da coloro che ritengono che un giorno sarà possibile riprodurre e trasferire il cervello, tramite procedimenti noti come “whole brain emulation” (Wbe) e “mind uploading”. Supponendo che la nostra individualità sia racchiusa nella mente, e che la coscienza alla fine sia soltanto un software, alcuni scienziati ritengono che copiando pari pari la struttura e il funzionamento del cervello sarebbe in teoria possibile conservare per sempre l’identità e i ricordi di una persona e trasferirli in un computer o in un altro corpo, una volta “rottamato” quello originale. Insomma, un download dell’anima.
Alfiere di questo approccio è il capo ingegnere di Google Ray Kurzweil, che ha pronosticato (in libri tipo “Come creare una mente”) il trasferimento del cervello umano in un computer entro una trentina d’anni. Kurzweil è sicuramente un genio, autore di svariati brevetti (come quello per il riconoscimento ottico dei caratteri di testo e per il riconoscimento vocale), tuttavia i suoi critici sottolineano che replicare l’infinita complessità del cervello potrebbe rivelarsi un compito proibitivo.
Ma anche dall’altra parte del mondo, in Russia, ci si sta lavorando: ad esempio con la “2045 Initiative” dell’imprenditore miliardario Dmitry Itskov, che da qui a quella data intende caricare la propria mente prima in un corpo artificiale e poi in un ologramma, per garantire al suo cervello una vita eterna o giù di lì.
Tutte sciocchezze di scienziati un po’ pazzi o di ricchi eccentrici? Può darsi, allo stato. Ma la Commissione europea ha stanziato 1,2 miliardi di euro per finanziare l’Human Brain Project, il cui scopo è realizzare entro il 2023 una simulazione al computer del funzionamento completo del cervello umano. La “vita eterna” in questo caso non è l’obiettivo dichiarato: ma potrebbe esserne un effetto collaterale.