Ogni giorno, secondo un recente rapporto del Dipartimento dei Veteran Affairs, 22 soldati dell'esercito Usa, in servizio o a riposo, si tolgono la vita. Depressione, stress, difficoltà di adattamento alla vita civile fanno da detonatori di una vera e propria strage quotidiana, che finora nessun programma di supporto psicologico è riuscito a fermare. Difficile individuare per tempo i segni premonitori della voglia di farla finita, distinguere fra chi ce la può fare e chi si è ormai arreso. Occorrerebbe un efficace modello predittivo.
È qui che entra in gioco il Progetto Durkheim, una ricerca in tre fasi, finanziata dalla Darpa con 1,7 milioni di dollari e battezzata secondo il nome del grande sociologo ottocentesco autore dei primi studi scientifici sulle cause di suicidio.
Alla base del progetto c'è l'uso dei cosiddetti Big Data: grandi quantità di informazioni analizzate alla ricerca di pattern ricorrenti; in questo caso, dopo una prima fase di elaborazione dell'algoritmo di previsione (basato sullo studio di vecchie cartelle cliniche di veterani a rischio, confrontate con quelle degli effettivi suicidi), che si è dimostrato in grado di fornire, nel 65% dei casi, stime accurate del rischio di suicidio, ulteriori dati arriveranno dal monitoraggio dell'attività dei veterani sui social media.
"In questa seconda fase, partita a luglio - spiega a L'Espresso Chris Poulin, fondatore di Patterns & Predictions, la società che assieme alla scuola di medicina Geisel di Dartmouth e al Department of Veterans Affairs cura la ricerca - cercheremo di ricavare un'impronta digitale il più possibile completa dei partecipanti all'esperimento. Quindi terremo sotto controllo non solo i post su Facebook, ma anche quelli di Twitter, LinkedIn e altri network locali, e alcuni dati provenienti dal loro utilizzo degli smartphone". I volontari che hanno acconsentito ad essere monitorati, conserveranno comunque un ampio margine di autonomia. "Potranno decidere in maniera granulare - spiega lo scienziato - quali e quante informazioni condividere: se, ad esempio, solo i post pubblici su Facebook, se anche i messaggi privati, e così via".
Per ora sono state coinvolte nel progetto all'incirca duemila persone, a regime tale numero dovrebbe salire a centomila. L'obiettivo è quello di individuare i particolari segnali linguistici che fungono da spia di un disagio che sta diventando estremo e dimostrare la fattibilità su larga scala di un simile approccio "statistico". I primi risultati dovrebbero arrivare entro la fine del prossimo anno: in seguito, le conclusioni del gruppo di ricerca potranno essere messe a disposizione di dottori ed ospedali per aiutarli a inviduare i soggetti a rischio, non solo fra i militari, ma anche fra altre categorie particolarmente vulnerabili, come gli adolescenti.
"Non si tratta qui - sottolinea Poulin - di rimpiazzare il lavoro dei medici, ma di fornire un primo strumento di screening per capire su quali persone conviene concentrare maggiormente gli sforzi di prevenzione". Precisazione importante, dato che una delle critiche che viene più di frequente rivolta a quest'approccio probabilistico, tramite i Big Data, alla medicina, è quella di agire soltanto sui sintomi di un certo malessere, senza incidere però sulle cause profonde dello stesso: di essere, insomma una sorta di paliativo che attenua ma non risolve i problemi. Nel caso del Progetto Durkheim, ciò significherebbe magari poter evitare qualche suicidio, ma nulla potrebbe impedire, senza un adeguato supporto psicologico, a chi è stato fermato di riprovarci. L'analisi fatta da un computer, sottolineano i tradizionalisti, non può sostituire il lavoro fatto caso per caso da un medico che conosce il paziente nella sua interezza, corpo e psiche.
Ci sono però anche i pasionari dell'algoritmo come il fondatore di Sun Microsystems Vinod Khosla, secondo cui la medicina tradizionale è qualcosa di simile alla "stregoneria" e "l'80% degli specialisti è destinato ad essere rimpiazzato dai computer". Per il momento una simile prospettiva appare ancora assai lontana, ma alcuni segnali fanno ritenere che Khosla possa avere almeno in parte ragione. Uno di essi, è l'utilizzo del supercomputer di Ibm, Watson, come aiuto oncologico nella diagnosi di alcuni tipi di cancro. Al cervellone elettronico, celebre per aver battuto alcuni concorrenti umani nel gioco a quiz televisivo Jeopardy, sono stati dati in pasto più di seicentomila cartelle cliniche e due milioni di pagine di testo tratte di articoli di riviste scientifiche che trattano di tumori e gli è stato insegnato come ricavare da essi dei modelli predittivi da applicare al caso di un nuovo paziente. Lo scorso febbraio sono stati immessi sul mercato sanitario americano i primi tre prodotti commerciali basati su Watson. Tre assistenti "virtuali" che i medici possono consultare anche a distanza e capaci di una potenza di calcolo e di una velocità di risposta impossibili per un umano.
L'approccio basato sui Big Data appare promettente anche per un altro scenario d'avanguardia della ricerca sanitaria: quello della cosidetta cura "personalizzata", basata sull'analisi del patrimonio genetico dei singoli pazienti, combinato con la loro storia clinica e con dati provenienti dalla letteratura medica. È così, ad esempio, che un manager di Intel, Eric Dishman, è riuscito a vincere la sua battaglia contro il cancro a un rene, durata un quarto di secolo. Sequenziandone il genoma, i dottori sono stati in grado di capire quale fosse l'intervento più appropriato, diverso da quello standard, e di salvagli la vita.
Per ora la mappatura del Dna è ancora poco diffusa - Disham è una delle sole 47mila persone al mondo che si è sottoposto a un'operazione del genere - ma con il diminuire dei costi, il superamento delle preoccupazioni legate alla privacy, e l'ingresso sempre più prepotente dei Big Data nella pratica medica, la personalized healthcare potrebbe diventare realtà; e all'intuito del medico che conosce il proprio paziente, ma che spesso procede comunque per prove ed errori, sostituirsi il giudizio di un supercomputer, che assegna fin da subito a ciascuno la terapia corretta.