Dalla Dichiarazione africana per le libertà della Rete al Consiglio d’Europa sui diritti degli utenti Internet. Dalla commissione parlamentare britannica sulla società digitale alla Commissione Globale sulla Governance di Internet.
Negli ultimi tempi non si contano nel mondo gli esempi di commissioni e iniziative per provare a regolamentare in senso positivo la Rete: non cioè imponendo divieti e censure, ma garantendo i diritti degli utenti. È un buon segno, finalmente. Ed è un buon segno che qualcosa si sia mosso anche in Italia, con la bozza di Carta dei diritti Internet elaborata da un’apposita commissione voluta dalla presidente della Camera, Laura Boldrini.
Ma come si spiega quest’improvviso cambio di passo della politica nei confronti di Internet? E la tendenza normativa non rischia comunque di avere anche effetti rischiosi in una realtà come quella digitale da sempre riottosa verso ogni imposizione esterna? «La Rete, al contrario di quanto si pensa, è sempre stata regolata», dice Stefano Quintarelli, parlamentare di Scelta Civica attento ai temi digitali, nonché membro della commissione Boldrini: «Infatti le stesse leggi che regolano la vita offline valgono anche nel mondo virtuale. Ci si è accorti però che non sempre le attuali normative sono adeguate alle sfide introdotte da una nuova dimensione, che è quella del digitale».
Quello della governance di Internet non è un tema astratto, per addetti ai lavori. Attorno a essa si gioca una battaglia che ha al centro interessi assai concreti. Una delle questioni principali, ad esempio, è la cosiddetta “neutralità della Rete”, ovvero la possibilità per tutti i contenuti di viaggiare alle stesse condizioni e alla stessa velocità sulle infrastrutture, senza discriminazioni: siano essi prodotti da un ignoto blogger o da una potentissima corporation digitale.
In proposito si scontrano due visioni: una più egualitaria, secondo la quale appunto tutti i contenuti devono avere gli stessi diritti; e una più liberista secondo la quale i proprietari delle infrastrutture devono aver diritto ad aumentare i loro profitti creando una corsia “preferenziale” da riservare a chi paga di più. Il primo di questi “partiti” ha incassato di recente un importante appoggio da parte del presidente degli Stati Uniti Obama, favorevole a un’Internet uguale per tutti. Ma l’idea di una Rete a varie corsie, dove chi paga di più gode di servizi e prestazioni privilegiate, raccoglie sostenitori in posti strategici, come la Federal Communication Commission degli stessi Usa. È necessaria, dicono questi operatori, per investire nelle reti di nuova generazione, un po’ come i proventi delle medicine finanziano la ricerca sui farmaci. «Una teoria che è smentita», dice dice a l'Espresso Philippe Aigrain, membro della commissione per le Leggi e i Diritti dell'era digitale del Parlamento francese, «da tutti gli studi indipendenti sulla redditività dei fornitori di connessione».
Ma sul tavolo ci sono anche altre questioni. Ad esempio, un quadro normativo aggiornato sulla protezione dei dati personali può aiutare a proteggere il diritto alla privacy e alla riservatezza delle comunicazioni, che è prerequisito fondamentale di una democrazia, specie dopo le rivelazioni dell’ex analista americano di intelligence Edward Snowden sulla sorveglianza elettronica di massa esercitata dai servizi segreti e vista anche la pervasività ormai capillare dello spionaggio a fini di marketing esercitato dalle grandi multinazionali tecnologiche.
Ma è lo stesso assetto complessivo della governance di Internet a essere diventato oggetto di dibattito. «Internet», dice la responsabile della ricerca della Commissione Globale sulla Governance di Internet, l’americana Laura De Nardis, «richiede un alto livello di coordinamento e amministrazione per rimanere operativa. Oggi come oggi, tale governance è definita come “multistakeholder” e comprende il coordinamento di funzioni proprie del settore privato, le politiche messe in atto dai governi e le funzioni svolte da istituzioni globali relativamente nuove come l’Internet Engineering Task Force (un gruppo aperto di tecnici, ricercatori, specialisti che si adoperano per promuovere l’adozione di standard operativi, ndr) e l’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (Icann), che si occupa della gestione dei domini».
A questo elenco di soggetti vanno aggiunti altri come l’International Telecommunication Union, W3C, che si occupa in particolare dello sviluppo del Web, e l’Internet Governance Forum, che l’Unione europea vedrebbe bene come luogo privilegiato di discussione e concertazione. Alcuni di questi enti, come l’Icann, sono stati fino a qualche anno fa di fatto sotto il controllo degli Usa, che però si stanno sempre più smarcando dalla gestione diretta, a favore di una governance condivisa. Fra i paladini di quest’approccio distribuito ci sono paesi come il Brasile, la cui legge di gestione di Internet nota come Marco Civil, è sovente presa a modello. Altri Stati preferirebbero invece passare a una governance più centralizzata che, magari attraverso la mediazione di organizzazioni come le Nazioni Unite, desse loro maggior spazio di manovra nella gestione dell’infrastruttura e delle comunicazioni che attraversano la rete.
Un altro possibile problema per chi ambisce a regolare la Rete, è quello della cosiddetta “balcanizzazione” di Internet, termine con cui si definisce l’intenzione di alcuni Stati - spaventati dalle rivelazioni di Snowden - di custodire i dati che riguardano i propri cittadini e le proprie aziende, il più possibile sul territorio nazionale, in modo da evitare furti e intercettazioni. «Benché si tratti di politiche ben intenzionate, volte a proteggere i dati, hanno delle controindicazioni», afferma De Nardis, «perché confliggono con il funzionamento stesso delle nuove tecnologie. Internet non riconosce confini nazionali e le società tecnologiche hanno equipaggiamenti e dati in tutto il mondo; sarebbe molto costoso per loro re-ingegnerizzare i loro network.
Per le startup, questo vorrebbe dire dover possedere un server in ogni nazione, con costi proibitivi, e questo costituirebbe un disincentivo a nuove innovazioni e servizi». Più che da singoli Stati preoccupati di far rispettare le normative comunitarie sulla protezione dei dati, in realtà, il vero rischio di balcanizzazione potrebbe derivare da provvedimenti varati da regimi autoritari, preoccupati di controllare i flussi di informazioni in entrata e di mettere a tacere le voci dissidenti o da leggi altamente restrittive in materia di tutela del copyright. «Una delle principali questioni che stiamo affrontando come Commissione », dice ancora De Nardis, «è appunto come mantenere Internet universalmente accessibile ed aperta, rispondendo al contempo alle preoccupazioni tipiche di alcune nazioni e di specifici contesti legali e culturali».
Se la Rete è globale, vi sono poi alcune questioni squisitamente locali, che riguardano cioè solo l’Italia. E qui il quadro è a luci e ombre. Perché mentre la commissione istituita dalla Camera ha portato il dibattito nel nostro Paese a un livello più avanzato rispetto ad alcuni anni fa, altre norme recenti o in corso di approvazione sembrano andare ancora in senso opposto.
Ad esempio, nei mesi scorsi è entrato in vigore il regolamento Agcom che consente all’autorità stessa di oscurare contenuti on line, nel nostro Paese, senza passare attraverso un processo e la sentenza di un magistrato. E la recente legge approvata in prima lettura al Senato sulla diffamazione contiene anche articoli che vanno a incidere in modo molto dubbio su alcuni principi giuridici di base che riguardano la libertà e la memoria della Rete: ad esempio, quando si decide di affidare alle corporation private anziché alla magistratura indipendente le decisioni in tema di diritto al’oblio. Insomma se la teoria delle commissioni accademiche è buona, la pratica delle decisioni operative resta talvolta discutibile.