Come se fosse l’io narrante dei racconti di Charles Bukowski, Vincent spreca con gusto la propria vita. A sessant’anni suonati da un po’, il meglio che sappia combinare è ubriacarsi su una poltrona sfondata. Non ha amici, né una donna, a parte la vispa Daka, una prostituta russa incinta e a corto di clienti. Sporco, con la barba sfatta, ma forte della maschera bukowskiana di Bill Murray, attende con serafica incoscienza che il mondo gli frani addosso. Quanto al conto in banca, gli è già franato da un po’. Questo è l’eroe, anzi proprio il “St. Vincent” raccontato dall’esordiente Theodor Melfi (Usa, 2014, 102’).
Immerso con soddisfazione nei propri guai, Vincent gira per le strade di Brooklyn alla guida di una vecchia Chrysler LeBaron, o di quel che ne resta. Comunque, se si esclude l’ippodromo in cui butta i pochi dollari che riesce a mettere insieme, le sue mete preferite restano la poltrona sfondata e una vecchia sedia accostata al muro di casa, nella polvere di quello che si suppone sia stato un tempo il suo giardino. Tutto viaggerebbe tranquillo verso la catastrofe, se nella casa di fianco non arrivasse Maggie (Melissa McCarthy) con il dodicenne Oliver (Jaeden Lieberher). Ha bisogno d’aiuto, la povera Maggie. In rotta con il marito, deve guadagnarsi da vivere e occuparsi del figlio, che fatica a essere accettato dai compagni nella nuova scuola. Per Vincent è un’ottima occasione. A tariffa oraria, pasti (quasi) inclusi, e con tutta l’irresponsabilità di cui è capace, gli farà da babysitter…
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Dice Melfi che, escludendo la prostituta russa, tutto quello che ha messo nel film lui stesso l’ha vissuto nella propria infanzia, direttamente o indirettamente. In particolare, spiega, ha sofferto la mancanza di un padre. E che cosa è Vincent, se non la negazione di qualunque spirito paterno, una negazione tanto estrema da capovolgersi nel suo contrario? Oliver, appunto, ben presto scoprirà di poter contare su di lui, finendo per dichiararne in pubblico l’improbabile santità.
È una commedia che trasmuta in favola, “St. Vincent”, purtroppo con qualche eccesso di miele verso la conclusione. Eppure, quando tutto è tornato alla più normale delle normalità, Melfi non rinuncia a utilizzare la grande maschera bukowskiana di Murray. A storia già conclusa, mostra con affetto il suo Vincent intento a festeggiare la “canonizzazione” a modo suo, di nuovo felicemente irresponsabile.