C’è una scena indimenticabile nel documentario "The Internet's Own Boy", che ricostruisce la vita densa, breve e fuori dagli schemi di Aaron Swartz, il programmatore, innovatore, attivista e sostenitore del libero accesso alle informazioni morto suicida nel gennaio 2013, a soli 26 anni. Ed è quando lo si scorge bambino fare capolino dietro al tavolo di una conferenza, relatore insieme ad altri che hanno venti-trenta-quaranta anni più di lui, e che lo ascoltano con attenzione stupefatta.
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Già, perché Aaron Swartz era certamente un giovane prodigioso, un genio direbbe qualcuno, ma a ben vedere non è questo il tratto che lo ha contraddistinto.
Sicuramente figlio della Rete e della cultura digitale, Swartz si distingue da altri giovani dotati - pensiamo al quasi coetaneo Mark Zuckerberg - per le sue scelte politiche. Dopo un’infanzia stupefacente, in cui ha contribuito a creare uno dei tasselli fondamentali del web 2.0, lo standard Rss, in cui ha inventato una Wikipedia ante-litteram, e contribuito a lanciare un fenomeno di internet come il sito Reddit (fenomeno probabilmente incomprensibile per gran parte degli ultraquarantenni), Swartz ha rifiutato una carriera dorata nella Silicon Valley per continuare a dedicarsi alle idee e agli ideali che lo avevano guidato fino allora: libero accesso alla conoscenza, lotta senza quartiere ai tentativi (spesso riusciti) di privatizzare e monetizzare il pubblico dominio, creazione di movimenti sociali e politici dal basso usando gli strumenti della Rete.
Proprio gli ideali che lo hanno portato dritto a una incriminazione per reati informatici e frode che gli faceva rischiare - grazie a una legge americana obsoleta, il Computer Fraud and Abuse Act, e alla determinazione, che il documentario non esita a definire persecutoria, del Dipartimento di Giustizia Usa - fino a 35 anni di carcere e 1 milione di dollari di multa.
Un rischio e un peso che lo hanno logorato per due anni e che alla fine lo hanno schiacciato. Quale era la colpa di Swartz? L’aver scaricato tramite la rete del Massachusetts Institute of Technology circa cinque milioni di articoli accademici della biblioteca digitale JSTOR.
Il suo obiettivo non era certo quello di rivenderli, e non è neppure certo che volesse buttarli online. Di sicuro il suo intento era di prendere una posizione su un tema fondamentale: il libero accesso alla conoscenza, specie quando questa è prodotta attraverso fondi pubblici e la stratificazione collettiva del sapere, e che invece troppo spesso è imbrigliata da organizzazioni che cercano di privatizzarla.
Swartz aveva anche scritto, tra l’altro proprio durante un soggiorno in Italia, un pamphlet al riguardo, il Guerrilla Open Access Manifesto (qui tradotto in italiano) e che esordisce così: “L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private”.
Nel documentario si capisce come proprio questo manifesto, e cioè le motivazioni politiche di Swartz, e non il fatto che sia stato scambiato per errore e ignoranza per un comune cybercriminale, siano stati la molla che ha guidato l’azione degli inquirenti. Ed emergono aspetti che chi aveva seguito il caso già conosceva: l’ignavia dantesca del MIT di Boston, che scegliendo una pilatesca neutralità sulla vicenda ha in realtà appoggiato l’accusa; oppure lo sfondo di una amministrazione americana che sta usando il pungo di ferro contro hacker, cyberattivisti, whistleblowers (vedi casi Manning e Snowden) e giornalisti.
II regista Brian Knappenberger, già autore di We Are Legion, il documentario su Anonymous, è stato molto bravo a evitare psicologismi e ritratti voyeuristici del protagonista o dei suoi cari. In questo senso sbaglia chi ritiene che il film sia una sorta di agiografia: di fatto non è neppure un vero biopic.
L’attenzione è tutta sui temi e sulle azioni pubbliche del protagonista. E sulle lotte vittoriose portate avanti da Swartz, come quella contro il Sopa, una controversa legge sulla pirateria e il diritto d’autore che avrebbe avuto pesanti ripercussioni sulla libertà d’informazione in Rete, e che tutti all’inizio davano per persa.
Certo, è un documentario che suscita molta tristezza, rabbia e indignazione. La stessa condivisa da quasi tutti gli intervistati, personalità del calibro di Lawrence Lessig, il giurista della Rete che lo stesso Swartz ha contribuito a “radicalizzare”, spingendolo ad occuparsi ad esempio del problema del finanziamento dei politici americani.
Era “il ragazzo della Rete, e il vecchio mondo l’ha ucciso”, dice brutalmente a un certo punto una giornalista che è stata anche sua partner. Ecco forse la domanda che non è stata abbastanza esplorata da Knappenberger è proprio questa: perché Aaron Swartz,e altri non molto dissimili da lui, faceva (e fanno) tanta paura? The Internet's Own Boy, uscito pochi giorni fa nelle sale americane, è visibile anche per gli utenti italiani grazie a una versione in Creative Commons. Le licenze che lui stesso ha contribuito a creare.