Quattro ragazzi. Di Napoli. Filmati nel 1999 e ritrovati dodici anni dopo. In una città che sperava di cambiare, ed è fallita. Come molte delle loro speranze. Due registi hanno realizzato un documentario meraviglioso. Ora nelle sale

"Storij e prumess chi part e chi rest storij e chi se ward a vit aret a na finestr". Musica napoletana: la ballano tutti, per strada, in casa, cantano, in auto o da ambulanti nei locali del centro. Musica che entra prepotente nel documentario "Le cose belle" di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno. Un racconto lungo dodici anni, che porta in scena le vite di Adele, Enzo, Fabio e Silvana. Incontrati a Napoli nel 1999, quando avevano fra gli 8 e i 12 anni, per un servizio commissionato dalla Rai. Ritrovati dai due registi nel 2009 e nel 2012, cresciuti, sbattuti dall'entusiasmo esplosivo che mostravano da bambini alla disillusione, al post-disoccupazione, post-arresti, malattie, amori infranti di quando hanno quasi trent'anni. Il passaggio dall'infanzia alla vita, insomma. Quella vita precaria che a Napoli ha forme forse più radicali che altrove ma che è un segno di riconoscimento dei giovani di tutta Europa: «Se no non si spiegherebbero il successo che abbiamo avuto anche in Francia e i commenti dagli altri paesi», racconta Piperno.
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Eccole "Le cose belle" che mostra questo documentario, pluripremiato in festival e concorsi e ora distribuito in alcune agguerrite sale cinematografiche: sono le immagini della Napoli del "rinascimento" del 1999, quando i protagonisti erano bambini e dicevano «da grande farò la modella - il cantante - il calciatore».

Sono le stesse vite dodici anni dopo, in una città «sommersa dall'immondizia», come annotano gli autori, dove la voglia di mostrarsi e ridere è finita nello smaltimento indifferenziato di un “essere grandi” fatto di lavori ultraprecari, fratelli uccisi per strada, litigi, frustrazioni, genitori da mantenere, sogni a cui rinunciare. «Si dice che il tempo aggiusta tutto... Ma chissà se il tempo esiste davvero», scrivono i due registi nella sinossi del film: «Forse il tempo è solo una credenza popolare, una superstizione, una scaramanzia, un trucco, una canzone. Il tempo si passa a immaginare, ad aspettare, e poi, all'improvviso, a ricordare. Ma allora, le cose belle arriveranno? O le cose belle erano prima?»
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“Le cose belle”, spiegano, è un augurio napoletano, da pronunciarsi rigorosamente in italiano. E una domanda che rivolgono a una delle protagoniste quando ha 14 anni: «E le cose belle, quali sono?». Lei, con il degrado della periferia alle spalle, a casa il padre uscito di galera, la madre altrove con altri – numerosi – figli, non risponde. Tace. Sembra quasi presentire le difficoltà che incontrerà dopo, in questa vita alla giornata, diventata magra, magliette sportive, mentre porta la borsa al fratello in carcere. Ed è solo una delle quattro storie che si intrecciano nel film. Un documentario che vuole raccontare «la fatica e la bellezza di crescere al Sud». In «tredici anni di vita. Quella di Adele, Enzo, Fabio e Silvana, raccontati in due momenti fondamentali delle loro esistenze: la prima giovinezza nella Napoli piena di speranza del 1999 e l'inizio dell'età adulta in quella paralizzata di oggi».
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A ottobre arriverà in Italia l'ultima grandiosa opera di Richard Linklater: Boyhood, un film che segue la crescita di un bambino, selezionato a un provino quando aveva sei anni e incontrato nell'arco di dodici, insieme ad attori del calibro di Ethan Hawke. Ferrente e Piperno sembrano aver anticipato lo stesso desiderio, quello di raccontare la vita con la vita, inscenando alcuni momenti, è vero, ma senza forzature, senza trucco per sembrare più giovani o più vecchi, semplicemente aspettando che l'esistenza stessa faccia cambiare i suoi protagonisti.

«Quando nel 1999 realizzammo “Intervista a mia madre”, un documentario per Rai Tre che voleva raccontare dei frammenti di adolescenza a Napoli, chiedemmo ai quattro protagonisti selezionati come immaginassero il proprio futuro», scrivono gli autori: «Loro risposero allora con gli occhi pieni di quella luce speciale che solo a quell'età possiede chi ancora sogna "le cose belle" e con quell'autoironia tipica della cultura partenopea che li aiuta a sdrammatizzare, esorcizzare e talvolta rimuovere gli aspetti problematici della vita. Al tempo stesso da quegli occhi traspariva una traccia di scaramantico disincanto».

Dieci anni dopo, nel 2009, il ri-avvicinamento: «A spingerci non è stata soltanto la curiosità: anche se eravamo soltanto i registi di un documentario che parlava delle loro esistenze, col tempo è cresciuta in noi la sensazione di aver avuto una qualche responsabilità nel destino di questi ragazzi diventati adulti», continuano gli autori: «Consapevoli di non essere né i primi né gli ultimi registi intenzionati a scoprire che fine hanno fatto i loro personaggi, nel riavvicinarci ad Adele, Enzo, Fabio e Silvana ci rendemmo subito conto di non essere riusciti - anche se non era certo nostro compito - a "salvarli" dalla catastrofe della loro città, dove ogni speranza di rinascita era stata, ancora una volta, delusa: le loro esistenze sembravano ferme, cristallizzate, senza prospettive di miglioramento. Questo ci creò un disagio palpabile, direttamente collegato al dolore per la loro condizione ma anche per quella di una città che ci aveva adottati e che ormai stava andando alla deriva sotto gli occhi del mondo».

Ci sono voluti quattro anni poi per portare a termine le riprese; quattro anni durante i quali la vita dei protagonisti è cambiata ancora, costringendo anche gli autori a seguirli per raccontare il passaggio del tempo. Il risultato sono 90 minuti di un'immersione totale. Vitale. Che è anche un memento micidiale sulla realtà. Con una costante: la voglia di ballare.

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