Selma è una voce, la voce di un grande leader, la voce di una comunità», dice Ava DuVernay del suo “Selma: la strada della libertà” (“Selma”, Gran Bretagna e Usa, 2014, 128’). Di chi è la voce? Del leader? Della comunità? O la voce del leader è essa stessa la voce della comunità? Scritta da Paul Webb, l’opera seconda della regista quarantaduenne torna ai fatti che, nella primavera del 1965, portano al Voting Rights Act, con cui Lyndon B. Johnson proibisce ogni discriminazione razziale nelle leggi elettorali dei singoli Stati.
Dopo lunghe esitazioni, il presidente degli Usa è stato indotto al provvedimento dallo sdegno degli americani che, in televisione, hanno visto la polizia infierire sui manifestanti in marcia da Selma a Montgomery, in Alabama. A guidarli fisicamente non c’è ancora Martin Luther King, che è già il loro leader. I fatti di quel 7 marzo, una domenica, sono il risultato di una sua scelta consapevole: sfidare il razzismo profondo e il segregazionismo della piccola città di Selma, provocarne la reazione e poi rispondere solo con una resistenza nonviolenta.
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Raccontando il suo King (David Oyelowo), DuVernay sceglie di intrecciarne la strategia e la vicenda privata, la prospettiva politica e le paure - la moglie e i figli vengono di continuo minacciati di morte -, la forza etica e la debolezza umana. È un capo, il premio Nobel per la pace, ma è anche un uomo, con i timori di ogni uomo. Sa tener testa a Johnson (Tom Wilkinson), sa opporsi al governatore George Wallace (Tim Roth), ma non sempre sa ascoltare chi, tra i militanti, non ne condivide le scelte. Decide di esporre i suoi alla violenza, ma più d’una volta dubita di averne il diritto. Insomma, la sua voce non è sicura e netta come vuole la mitologia del capopopolo e del leader. Ed è qui, alla fine, la sua grandezza.
Emerge limpida l’11 marzo, questa grandezza. Una seconda volta in marcia da Selma a Montgomery, una folla di uomini e di donne si trova di nuovo la strada sbarrata dalla polizia, pronta a caricare. Alla testa del corteo ora c’è King. L’occhio televisivo degli americani gli sta addosso. Dunque, converrebbe proseguire, lucrando poi i vantaggi di altro sangue. Ma il capo si ferma, e ferma il corteo. Tra la causa e le vite dei suoi, la sua responsabilità decide per le vite. Da lì a due settimane la marcia ripartirà. Ora, però, King sceglie il silenzio, e in quel silenzio la sua voce incontra la voce del suo popolo.