Meglio del cinema non c’è che la vita. Così pensava Roger Ebert, critico del “Chicago Sun Times” dal 1967 alla morte, avvenuta il 4 aprile 2013. A lui e al suo lavoro è dedicato “Life Itself” (Usa, 2014, 120’). Quando Steve James inizia a girarlo, nel 2012, Ebert già combatte da anni contro un cancro alla tiroide che lo ha privato della voce ma non della scrittura, e ancor meno dell’entusiasmo per la scrittura. Un entusiasmo, questo, che conoscono i suoi moltissimi lettori americani e i suoi pochissimi lettori italiani. All’improvviso, le sue condizioni si aggravano. Le riprese sembrano a rischio, ma Ebert lascia che la macchina da presa entri nella stanza d’ospedale dove è ricoverato, e dove la moglie Chaz se ne prende cura.
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Sono crude le immagini di “Life Itself”. James non teme di mostrare lo scempio del cancro sul volto del critico. Eppure, su quel volto c’è un sorriso non forzato, non “messo in scena”. Come ha sempre fatto nelle sue recensioni, Ebert ci parla in maniera diretta (per quanto attraverso una voce sintetica). Ci racconta la sua vita, a partire dagli esordi nel giornalismo e dal momento in cui, a 22 anni, il “Chicago Sun Times” gli affida la critica cinematografica, non per suo interesse, ma perché nessun altro se ne vuole occupare. Così capita nelle redazioni.
Tuttavia, come non sempre capita, dalla decisione del giornale nasce velocemente quello che Pauline Kael, del “New Yorker”, avrebbe poi definito il più grande critico dei quotidiani d’America.
Come intendeva il proprio mestiere Roger Ebert? La risposta sta nel suo modo d’intendere l’uso delle “stellette”. Non si tratta di indicazioni assolute di valore, lo sentiamo ripetere in “Life Itself”, ma relative, ossia riferite al genere di film. Avendolo seguito per anni, ci sentiamo di aggiungere che non pretendevano di trasformarsi in valutazioni estetiche. Erano pensate come un viatico per gli spettatori, un’indicazione rivolta alle loro intelligenze. La valutazione stava nel testo della recensione, nella sua scrittura semplice e profonda insieme.
Man mano che il film procede, Ebert sempre più cede alla malattia. Poi, cade anche l’ultima speranza. La fine s’avvicina. Come sanno critici e spettatori, è la fine che dà senso al film. Della morte non ho paura, aveva detto tre anni prima: al di là della vita non c’è niente, e dunque niente da temere. E ora che il momento è venuto, sul suo blog scrive: «I’ll see you at the movies». Arrivederci al cinema.