Il rugby torna a casa, in Inghilterra, dove è stato inventato quasi duecento anni fa. Torna per l’ottava edizione della Coppa del mondo e diventa una vetrina eccezionale per uno sport in ascesa. Le venti migliori nazionali infatti si affronteranno in 48 match: battaglie di concentrazione, tecnica e preparazione fisica lunghe in tutto un mese e mezzo, dalla partita iniziale del 18 settembre alla finale del 31 ottobre nello stadio di Twickenham a Londra. Il tempio della palla ovale.
Nonostante il gioco sia complesso - passaggi rigorosamente all’indietro, strategici calci fuori dal campo, 30 giocatori in azione - la sfida per strappare la palla agli avversari e depositarla in meta oltre la linea di fondo, appassiona perché è rimasta la stessa dalla nascita, nel 1823. Inalterati spirito e valori, che esaltano gesto atletico, sacrificio collettivo della squadra e festa sugli spalti. È questo insieme di tradizione e distanza dalle storture del calcio e del professionismo milionario che affascina il suo popolo, che negli anni ha visto anche appassionati “insospettabili”, da Che Guevara a papa Wojtyla.
Ed è un popolo in continua crescita. «Negli ultimi anni a livello globale la partecipazione è cresciuta di più di due milioni, raggiungendo 6 milioni e 600 mila giocatori tra professionisti e dilettanti», conferma il presidente del rugby mondiale, il francese Bernard LaPasset: «Un fatto dovuto al successo commerciale della Coppa del Mondo, alle strategie per lo sviluppo e a investimenti record». Alle spalle del movimento c’è infatti un’industria sportiva con campionati nazionali organizzati e pieni di pubblico (Italia a parte) e un obiettivo ambizioso: allargare il perimetro di giocatori, squadre e fan.
I team più forti, oggi, stanno dentro i confini dell’ex impero inglese. Dove il gioco nacque quasi per caso, nel 1823, nella cittadina di Rugby, contea di Warwickshire, durante una partita di football ancora senza regole standard: prima come sport d’élite, praticato dall’aristocrazia, poi diffuso nei territori d’oltremare di Australia e Nuova Zelanda ma anche nelle scuole di Francia, Sudafrica, Argentina, fino alle isole Fiji e Samoa.
Ma cosa vedremo ai mondiali di settembre e ottobre? La top ten delle migliori formazioni ricalca la tradizione più consolidata in fatto di placcaggi e mete. I campioni in carica, ultra favoriti, sono gli All Blacks della Nuova Zelanda, celebri per la danza “Haka” che precede ogni loro incontro. Ci sono poi la nazionale irlandese e gallese, gli “springboks” sudafricani, i “wallabies” australiani, i “pumas” argentini e i “galletti” francesi. Tutti ambasciatori di tecnica, potenza e velocità di gioco. Gli scontri tra queste formazioni saranno i match più attesi: Inghilterra-Australia, Nuova Zelanda-Argentina, Francia-Irlanda e Sud Africa-Scozia nella fase iniziale. Tra i giocatori protagonisti dei mondiali, sicuramente ci saranno Dan Carter, apertura degli All Blacks (già entrato nella storia superando il muro del 1.500 punti segnati), l’australiano Quade Cooper l’argentino Juan Martín Hernández considerato il Maradona del rugby, il sudafricano Patrick Lambie, l’inglese Danny Cipriani, l’irlandese Sean O’Brien e il francese Louis Picamoles.
Finora la Webb Ellis Cup - trofeo che va al vincitore della coppa del mondo, e che porta il nome del fondatore della disciplina - è stata alzata solo da Nuova Zelanda, Australia e Sudafrica. Tranne che nel 2003: quell’anno la “regola” della vittoria sempre a una squadra del sud del mondo fu infranta dall’Inghilterra. Dai padroni di casa cioè di questa edizione della Rugby World Cup.
Un indotto da un miliardo
Dalla prima edizione, nel 1987, la coppa del mondo ha avuto una crescita impressionante, macinando chilometri in tournée intercontinentali, facendosi spazio nei palinsesti tv, raccogliendo fama e sponsorizzazioni fino a diventare il terzo evento sportivo dopo Olimpiadi e mondiali di calcio. Oggi l’ovale mondiale vale un miliardo di dollari di indotto e oltre 190 milioni di profitto tra biglietti venduti (più di due milioni quelli già staccati) e diritti televisivi per trasmettere placcaggi e mischie. Questa è del resto la sesta edizione della World Cup dalla “rivoluzione copernicana” del 1995, quando l’International board (la Fifa del rugby) chiuse il capitolo amatoriale e aprì quello del professionismo.
Dopo di allora arrivarono i milioni del magnate di Sky Rupert Murdoch per i diritti tv, sponsor prestigiosi e budget consistenti. Aumentò lo spettacolo e il numero di incontri. “Esplosero” perfino i corpi dei giocatori, in una metamorfosi ben raccontata da Le Monde, che ha messo in fila pesi, altezze e placcaggi: nel 1987 il peso medio di un giocatore era di 91,4 chili per un’altezza di 185 centimetri. Oggi sono 101,4 chili per 188 centimetri. Nella primissima finale i placcaggi erano 160 in 21 minuti di gioco effettivo; nel 2011 sono stati 282 in 37 minuti. «Con la crescita di massa muscolare dei giocatori è cambiato tutto: le carriere si accorciano e i problemi di sicurezza aumentano; lo scontro non si evita ma si cerca, a scapito della tecnica», sottolinea Antonio Raimondi, commentatore Tv ed ex pilone a Milano: «Il campo è rimasto lo stesso, così aumentano il numero di impatti. È chiaro che qualcosa dovrà cambiare presto o si rischia di fare la fine del football americano dove si affrontano, più che atleti, macchine da spettacolo».
Polemiche nostrane
Altro motivo di discussioni infinite tra gli appassionati, quello della “naturalizzazione” degli oriundi: giocatori che nascono ad Auckland o Johannesburg ma vestono la maglia di Inghilterra, Francia e Scozia. Bastano pochi anni nei campionati locali per cantare un nuovo inno. Del resto, la stessa Italia si affida ad un allenatore francese, Jacques Brunel, e il suo capitano Sergio Parisse è nato in Argentina. Atterrato a Treviso a 17 anni, è diventato icona di una nazionale arcobaleno con radici in Nuova Zelanda, Australia, Sud Africa, Canada, Fiji e Scozia.
La mission impossible dell’Italrugby sono i quarti di finale: mai raggiunti. La federazione che guida l’ovale nostrano ha investito la cifra stratosferica di mezzo miliardo di euro negli ultimi quindici anni, ma il miglior risultato rimane l’impresa sfiorata nel lontano 1987.
L’Italia arriva con una squadra sfiduciata e senza grosse aspettative, con lo scoglio praticamente insuperabile dei maestri francesi e dei campioni dell’Irlanda da battere per passare il turno. I problemi sono evidenti. A giugno è saltato il ritiro per la preparazione a causa delle incomprensioni con il presidente della federazione, Alfredo Gavazzi, che ha acceso la miccia dello scontro con lo spogliatoio con queste parole:«Sono stanco di avere “pensionati” in nazionale. I premi devono essere legati ai risultati. Nel caso dei mondiali, al passaggio ai quarti di finale».
A prendere le difese degli azzurri è Marzio Innocenti, ex capitano negli anni Ottanta: «Gavazzi è ingeneroso verso questa generazione di fuoriclasse che ha fatto fare il salto di qualità all’Italia. È il nostro sistema a non produrre atleti di livello. Abbiamo puntato sulle accademie ma i risultati sono insufficienti: il campionato è ridotto ai minimi termini, i club sono in sofferenza e messi ai margini, allenatori e giovani all’altezza non ne abbiamo. Quello che fa la nazionale è quasi un miracolo».
I detrattori del rugby italiano puntano il dito contro la gestione della notorietà e dei fondi arrivati con l’entrata - nel 2000 - nel torneo Sei Nazioni, la sfida annuale contro Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda e Francia. Grazie al torneo più antico del mondo, il 60 per cento del bilancio da oltre 40 milioni di euro all’anno arriva dai premi e dai diritti televisivi, ma non siamo mai al livello delle altre squadre.
Altra nota dolente, l’assenza di giocatori giovani di qualità (in Inghilterra andrà il 36enne Mauro Bergamasco). Per il futuro si è deciso di concentrare gli sforzi puntando sulle accademie come fucine di campioni, che però finora non hanno dato i risultati sperati: niente vittorie né campioni universalmente riconosciuti come Gigi Buffon nel calcio o Danilo Gallinari nel basket. Il risultato sul campo sono 63 sconfitte su 76 match negli ultimi quindici anni e la discesa al tredicesimo posto del ranking mondiale (su 102), superati perfino dalla piccola Georgia. Troppo poco, per tenere testa ai migliori del mondo.
Cultura
7 settembre, 2015Parte l'edizione più attesa dai fan. Che sono sempre più numerosi e appassionati. Dietro questa disciplina c'è infatti un'industria sportiva con campionati nazionali organizzati e pieni di pubblico. Ma non in Italia
Rugby, la coppa del mondo torna in Inghilterra E i padroni di casa sfidano i mitici All blacks
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