Amazzonia, la lotta dei popoli della foresta

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Dighe, miniere e deforestazione 
sono di nuovo in crescita. E gli indigeni, dimenticati da tutti, lottano da soli contro forze immense. 
Compreso Trump (Foto di Mads Nissen)

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Di notte i ladri di foresta escono con i mezzi carichi di legno dal fitto della vegetazione e li caricano sulle chiatte che li trasporteranno via, lungo il Rio delle Amazzoni, verso i mercati di una sempre più fiorente industria. Un andirivieni ininterrotto che monsignor Giuliano Frigeni, vescovo di Parintins, osserva impotente. Come ha raccontato a Radio Vaticana, le sue denunce alla polizia e all’agenzia della protezione ambientale non producono alcun risultato.

Quando gli agenti arrivano per le verifiche, non trovano tracce del traffico illecito. Persino i trattori usati per trainare i tronchi spariscono chissà dove. Un’organizzazione oliata ed efficiente che non lascia nulla al caso. Per pochi spiccioli, in qualche caso persino tre euro a tronco, attraverso il fiume, l’Amazzonia polmone del pianeta viene portata via.
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L’enciclica Laudato si’ di papa Francesco è un grido d’allarme su come stiamo consumando l’unica Terra che abbiamo, sul mondo che lasceremo in eredità alle generazioni future. Ma se un potere spirituale pensa al futuro, c’è un potere temporale, e non di secondaria importanza, che davanti ai temi ecologici alza le spalle. Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barack Obama, non ha la difesa del suolo in cima alla sua agenda e anzi bolla come «stronzate» le grida d’allarme sui cambiamenti climatici.

Tuttavia non si può imputare al miliardario che siederà alla Casa Bianca solo dal gennaio prossimo quanto successo nel recente passato. Nei giorni scorsi lo Space Research Institute brasiliano ha reso noto uno studio dal quale risulta che tra l’agosto del 2015 e il luglio di quest’anno (ultimi dati disponibili) sono stati distrutti 8.000 chilometri quadrati di foresta, un territorio vasto come l’intera Umbria, contro i 5.800 dei dodici mesi precedenti. Il 30 per cento di alberi abbattuti in più che sale al 50 per cento se per paragone si prende il 2012, l’unico anno in cui il trend si era invertito.

E questo nonostante il Brasile si sia impegnato a ridurre entro il 2020 le emissioni imputabili alla deforestazione (responsabile del 15 per cento dei gas serra, più dell’intero settore dei trasporti) e alla riforestazione entro il 2030 di 12 milioni di ettari di terreno. Il disboscamento è imputato, all’80 per cento, ad attività illecite che il governo centrale non sembra in grado di fermare: allevamenti intensivi di bestiame, coltivazione della soia (soprattutto ogm), naturalmente industria del legno.

Il business è miope, si preoccupa del qui ed ora. Il Brasile, prima di intraprendere la strada di una certa coscienza ecologica, rivendicava addirittura il diritto di sfruttare come meglio credeva un patrimonio “suo” e non dell’umanità intera. Non avevano del resto fatto altrettanto con le loro risorse i Paesi di capitalismo avanzato, salvo pretendere di dare lezioni agli altri? La resipiscenza, con la consapevolezza di avere un comune destino, ha prodotto leggi e proclami che tuttavia restano sulla carta. Troppo poche le risorse disponibili per le guardie ambientali, troppo grande da controllare l’Amazzonia con i suoi 6,5 milioni di chilometri quadrati (5 per cento della superficie terrestre), 60 mila specie di piante, mille di uccelli e 300 di mammiferi. E troppo forte la tentazione della corruzione per chiudere un occhio e favorire gli ingenti guadagni.

Sarebbe però riduttivo, oltre che egoistico, catalogare il problema Amazzonia solo sotto la voce “ambiente”. Perché l’invasione della foresta pluviale ha un corollario neo-coloniale che riguarda l’esistenza stessa dei nativi, popoli sacrificati dall’incontro con la civiltà del profitto. Come è il caso degli yanomami. Aveva suscitato clamore la notizia, un mese fa, che questi indios installati nel nord a ridosso del confine col Venezuela, avevano ucciso con le frecce sei cercatori d’oro penetrati nel loro territorio. Loro stessi hanno rivendicato, con un comunicato, il massacro. I contorni della vicenda non sono noti e del resto, pur nell’era globale di internet, è ancora difficile avere informazioni esatte su una comunità rimasta ai margini o da un territorio per larghi tratti ancora vergine. Il quadro generale però è chiaro.

Nel 1940 il governo decise la costruzione di una strada verso il confine col Venezuela che taglia l’area degli yanomami. Arrivarono operai e, a rimorchio, i “garimpeiros”, cercatori d’oro appunto. Con loro, malattie per le quale gli indios non avevano sviluppato anticorpi. Il mercurio usato per scovare metalli preziosi provocò l’inquinamento dei corsi d’acqua. L’ecosistema fu sconvolto e si calcola che il 20 per cento della tribù mori. Nel 1992 l’area fu classificata come parco per proteggere la popolazione. Ma questo non ha impedito ai garimpeiros di proseguire nella loro invasione e di rendersi responsabili di azioni atroci come quattro anni fa, quando diedero fuoco a un villaggio e morirono 80 persone.

La crisi economica che sta attraversando il Brasile, dopo gli anni del boom che lo aveva collocato all’interno del gruppo di Paesi emergenti del Bric, ha prodotto come conseguenza anche un taglio delle risorse all’agenzia che dovrebbe proteggere gli indigeni e i loro diritti. Secondo pessimistiche previsioni, l’agenzia potrebbe in futuro addirittura chiudere. Risultato: almeno 5.000 cercatori d’oro tentano l’avventura e la fortuna laddove i circa 35.000 yanomami superstiti lottano per conservare abitudini e tradizioni, oltre alla loro stesa vita.

Davi Kopenawa, sciamano e attivista yanomami, presidente dell’associazione “Hutukara”, definito “il Dalai Lama della foresta”, ha più volte implorato: «Il luogo incontaminato dove gli indigeni vivono, cacciano, pescano deve essere protetto. Il mondo intero deve sapere che la foresta è loro». E sui garimpeiros: «Sono come termiti, continuano a tornare e non ci lasciano in pace». Nemmeno un Dalai Lama sudamericano ha potuto evitare una vendetta per le infinite intrusioni illegali. E a loro volta portatrici di morte.

Gli yanomami non sono l’unico popolo a rischio. Nello Stato di Rondonia temono la stessa sorte gli Uru Eu Wau Wau, conosciuti anche come “popolo dell’Aquila Arpia” perché usano le piume del volatile per fabbricare frecce e copricapi, e gli Jururei (“I coraggiosi”). Il governo di Rondonia ha varato un massiccio piano di colonizzazione nelle terre a ridosso delle due comunità. I risultati si possono apprezzare grazie alle immagini riprese dall’alto che mostrano lande infinite bruciate e disboscate dai coloni bianchi.

I capi delle due tribù a fine estate hanno scritto una lettera accorata alla polizia federale. Denunciano «la peggiore invasione degli ultimi decenni». Si dicono «molto preoccupati per la vita di donne, anziani, bambini e uomini». Concludono: «La situazione è estremamente seria e gli invasori devono essere allontanati velocemente prima che qualcuno muoia durante gli scontri all’interno del territorio indigeno». Survival International ha lanciato un appello in difesa del “popolo dell’Aquila Arpia”.

Indios contro coloni bianchi. Cercatori d’oro e massacri. Sembrano cronache del passato remoto. Sono il risultato degli appetiti di oggi sulla ricca Amazzonia.

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