Molti automobilisti non lo sanno, ma quando percorrono la strada da Las Vegas a Los Angeles, le loro auto sono spiate dall’alto da droni dell’esercito. I piloti le seguono col proprio mirino per svagarsi un po’. D’altronde la base delle operazioni è proprio a Las Vegas, perché le montagne circostanti ricordano quelle dell’Afghanistan... Andrew Niccol, già sceneggiatore di “The Truman Show” e regista di “Gattaca” e “Lord of War”, svela questo inquietante retroscena della vita dei militari al centro del suo nuovo film, “Good Kill”, in uscita il 25 febbraio.
Tommy Egan (Ethan Hawk) è un maggiore dell’aeronautica che vorrebbe tornare a volare, ma le missioni a bordo dei caccia sono state sostituite dalle più sicure operazioni affidate ai droni. Senza dire a sua moglie (January Jones) qual è il suo nuovo incarico, si trova a dover guidare i letali MQ-9 Reaper sopra i cieli di Pakistan e Afghanistan per eliminare terroristi talebani. Un giorno però la Cia prende il comando delle operazioni ed Egan, insieme al suo team, si vede costretto a uccidere anche obiettivi dall’identità non certa: «Questi omicidi», ci spiega il regista che abbiamo incontrato al Festival di Toronto, «vengono chiamati in gergo “signature strike”, perché la firma sulla condanna a morte la mettono i servizi segreti sulla base di un semplice sospetto. Se ti trovi vicino a un terrorista già identificato è probabile che lo sia anche tu, quindi la tua vita può essere sacrificata».
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In un’escalation di tensione, in cui Egan sarà chiamato a prendere decisioni sempre più drammatiche sull’opportunità di premere il grilletto e uccidere innocenti, anche la sua relazione pian piano finirà in pezzi. «Questa vita schizofrenica è la nuova realtà per i nostri piloti», dice Niccol. «Non è mai accaduto nella storia delle guerre di chiedere ai soldati di andare a uccidere dalle 9 alle 17, con orario d’ufficio, e poi di tornarsene a casa come se fosse un lavoro qualsiasi».
Anche se i droni si sono già visti in numerosi film d’azione o bellici (da “Syriana” a “RoboCop” fino a “The Bourne Legacy”) “Good Kill” è il primo film di finzione a trattare l’argomento per stimolare una discussione. Il tema peraltro di recente è stato al centro di diversi documentari: “Dirty Wars” segue il giornalista Jeremy Scahill investigare i danni collaterali causati dai droni in Yemen, Somalia e Afghanistan, mentre “Unmanned: America’s Drone Wars” presenta interviste tanto ai familiari delle vittime quanto agli ex piloti. Nel frattempo anche il cinema a soggetto e il teatro si sono accorti dell’argomento: lo scorso settembre è stato presentato a Toronto “Eye in the Sky”, in cui Helen Mirren è un colonnello che sta guidando un’operazione per assassinare alcuni membri di al-Shabaab a Nairobi; la donna si trova imbrigliata dalla burocrazia che teme ripercussioni per il bombardamemto in uno Stato straniero e dall’arrivo inatteso di una bambina nell’area dell’attacco. Grande successo di critica e di pubblico ha poi avuto a Broadway l’anno scorso lo spettacolo “Grounded”, scritto dal drammaturgo George Brant, in cui Anne Hathaway è una pilota di droni che divide la sua giornata tra lavoro e casa (proprio come Ethan Hawke in “Good Kill”) con effetti devastanti.
«Per preparare il film ho parlato con diversi piloti», spiega Niccol, «ma solo uno mi ha raccontato di soffrire della sindrome da stress post-traumatico. Credo che la maggior parte si vergogni di ammettere di essere traumatizzata perché sono convinti di poter contenere le emozioni in compartimenti stagni. Ho conosciuto ragazzi che impugnano il joystick, volano virtualmente in Afghanistan a combattere anche se si trovano a migliaia di chilometri al sicuro nel deserto del Nevada, poi escono con gli amici o tornano nel proprio appartamento per mettersi a giocare ai videogame. Così possono staccarsi emotivamente dalla propria missione».
A proposito, come dice in “Good Kill” in un discorso alla sua squadra il colonnello Johns (Bruce Greenwood): «ai piani alti non vogliono ammetterlo, ma la metà tra voi è stata reclutata nei centri commerciali proprio perché siete videogiocatori». Una frase che trova conferma nel documentario norvegese di Tonje Hessen Schei intitolato “Drone”, in cui si spiega come l’esercito americano recluti molti appassionati di sparatutto virtuali per la loro straordinaria coordinazione tra gli occhi e le mani, utile quando si guida un velivolo (reale) telecomandato.
Secondo un rapporto dell’associazione britannica per i diritti umani Reprieve, da quando sono cominciati gli attacchi con i droni in Asia centrale sono state uccise più di 4.700 persone, con una percentuale di vittime innocenti altissima: basti pensare che per assassinare 41 bersagli precisi, sono morti 1.147 individui, alla faccia della politica degli “omicidi mirati” sbandierata dal governo Usa. «Nessuno vuole negare che l’utilizzo dei droni possa avere dei benefici», dice Niccol: «Chi si dichiarerebbe contrario a un attacco contro un leader dell’Is responsabile di decapitazioni? Il problema è che quel confine è stato ampiamente superato: è ben documentato che gli Stati Uniti hanno colpito intenzionalmente le persone radunate ai funerali dei terroristi come se fossero anch’esse tutte complici; ed è stata usata la strategia di bombardare e poi tornare immediatamente dopo a colpire i primi soccorritori, senza curarsi di sapere chi fossero». Aggiunge Ethan Hawke: «Ci sono Paesi dove non si esce più di casa quando il cielo è azzurro e gli attacchi dei droni sono più probabili. È assurdo considerare un’intera popolazione colpevole per le azioni di pochissimi».
Realizzare “Good Kill” sotto questa cappa di propaganda, che fa pensare agli americani come l’utilizzo dei droni sia l’unica soluzione possibile per estirpare il terrorismo globale preservando la vita dei soldati, non è stato per niente facile: «Abbiamo provato a chiedere l’appoggio dell’esercito ma hanno cortesemente declinato», spiega Niccol. «Tuttavia il problema maggiore è stato trovare i fondi per finanziarlo, perché realizzare film che toccano questioni scottanti è sempre più difficile. Di solito si preferisce andare sul sicuro e produrre un adattamento di un fumetto con qualche supereroe».
«Già, il mercato è ormai saturo di film come “Transformers”», incalza Hawke: «Il potere degli esperti di marketing ha superato quello degli autori e così la gente ha la sensazione che questi siano i film da non perdere assolutamente anche se non è vero. Io sono un attore drammatico e negli ultimi dieci anni ho quasi smesso di lavorare a Hollywood perché i drammi non esistono quasi più e ci sono solo film d’azione e thriller. Purtroppo ormai c’è una tendenza a spingere le persone verso la mediocrità. E gli attori non sono immuni: a Hollywood vogliono solo che segui le regole e incassi. Ma se io ogni tanto faccio qualche film di genere è solo per potermi permettere pellicole come “Good Kill”: il nostro lavoro è quello di fare uscire la gente dal cinema e stimolarla a iniziare una conversazione su un tema importante».