L’arte americana degli anni Ottanta è caratterizzata da installazioni e performance che si affermano nemiche della tradizione, in particolare della pittura considerata un’eresia conservatrice rispetto all’importanza della proiezione nel futuro tramite il progetto e il corpo. Alcune sacche di resistenza rimangono, tanto da far approdare la ricerca nel porto del neo espressionismo.
Ma la radicalità del rifiuto, impegnandosi in un procedere intenzionalmente reazionario e anacronistico che si ispira all’arte classica europea, si deve a John Currin (1962). Inizia il suo percorso con ritratti di persone comuni o di suoi colleghi studenti, muovendosi tra il mondo dell’illustrazione e della natura morta, per pervenire, nel 1989, ad una ritrattistica grottesca e provocante (al Museo Bardini, Firenze, fino al 2 ottobre) che si rivela antagonista alle tendenze affermate e riconosciute.
Richiamandosi a Botticelli e a Cranach e continuando la strada indicata da Hopper e Picabia, riesce a sessualizzare avvenimenti domestici e a fornire una personificazione ambigua del femminile, dalle evidenti e maldestre esuberanze, come enormi seni o scheletrici busti.
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Un assoggettamento alla propria visione maschile che è stata utilizzata per definirlo sessista. Gli innesti fisiognomici e le scene di vita, quanto di pornografia, rimandano però a una visione mitica del quotidiano, composto di esseri unici e diversi, veneri e prostitute che raccontano per immagini di una lussuria contemporanea, non differente da quella storica, dal rinascimento al barocco: un’arte libertaria e libertina.