Per i traduttori che non amano sforzarsi, “guilty pleasure” significa “piacere proibito”. Per ?i traduttori che amano i romanzi rosa, “guilty pleasure” significa “passione segreta”. Per i traduttori emancipati, quelli che non temono l’ira degli italianisti, “guilty pleasure” significa “guilty pleasure”. Punto.
E hanno ragione: un concetto così malandrino merita un passaporto straniero, come fosse qualcosa che non ci riguarda. Come fosse qualcosa che, al massimo, riguarda l’amico di un nostro lontanissimo cugino. Avete presente Chuck Palahniuk? «Prima regola del Fight Club: non parlare mai del Fight Club». Ecco. Il guilty pleasure funziona nello stesso modo, solo che non è brutale e non è neppure illegale: ?è semplicemente inconfessabile. Tutti ne hanno uno. Tutti. L’intellettuale che non si perde mezza puntata della D’Urso. ?Il satanista che si commuove ?con “Farfallina” di Luca Carboni. Lo scienziato che si fa pronosticare il futuro dalle cartomanti.
Ah, sì. Poi c’è l’amico di un nostro lontanissimo cugino che va matto per il catalogo D-Mail. Passa ore e ore a sfogliarlo, incantato. Si riempie ?lo sguardo di sottopentole a forma di stelle ninja e dispenser ?lancia-biscotti per animali, cavatappi a forma di tucano e mollette ?appaia-calzini, disintossicandosi magicamente dalle bruttezze del mondo. Magicamente e, certo, inconfessabilmente.