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Ogni epoca ha il suo genere d’elezione. Ogni grande regista reinventa i generi a modo suo. Il noir americano nasce dalla Grande Depressione e poi dal maccartismo. “Il lago delle oche selvatiche” invece coreografa la ferocia, la rapacità, la mercificazione, le mostruose disuguaglianze di un paese che ha unito l’impetuosa crescita economica al controllo sempre più capillare dei cittadini. E tutto con una precisione, una crudeltà, uno humour che dribbla la sociologia per saltare direttamente nella mitologia.
Di Diao Yinan, 49 anni, ricordiamo il già bellissimo “Fuochi d’artificio in pieno giorno”, caccia al killer tra le miniere di carbone del Nord, Orso d’oro a Berlino 2014. Stavolta l’intrigo è più concentrato nel tempo - 48 ore - ma dilatato nell’azione e nei personaggi. Oltre che fecondato da una quantità di idee di regia che basterebbe per una vita (tra ombrelli killer e scarpe fluorescenti si pensa anche a Orson Welles, e non solo per le citazioni dalla “Signora di Shanghai”). Si parte con uno scontro tra gang per il controllo dei furti di motociclette (geniale, e presa dalla realtà, la lezione con il maestro alla lavagna e i ladri che prima di spararsi addosso prendono appunti). Si prosegue con la fuga del capobanda Zenong (il divo Hu Ge), che per errore uccide uno sbirro e si trova tutti alle calcagna per incassare la taglia, banditi e poliziotti.
Anche se a rendere tutto memorabile, come in ogni vero noir, è l’ambigua, modernissima, segretamente sexy Aiai (Guei Lun Mei), la donna che dovrebbe aiutare Zenong ma in realtà fa la “bagnante”, leggi prostituta, sulle rive del lago. Gli storici diranno se la scena di sesso in barca (censurata in patria nelle parti più crude) è la prima quasi hard in un film cinese. Agli occidentali non sfuggirà il nome della città-mondo che con le sue periferie cadenti fa da teatro al film. Si chiama Wuhan.
“Il lago delle oche selvatiche”
di Diao Yinan
Cina, 113’