Cultura
febbraio, 2020

Perché "Alice e il sindaco" è un manuale per la sinistra

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L’idealismo da ritrovare. I progressisti senza visione. E la frustrazione sociale. Il film di Nicolas Pariser è un breviario politico nell’età della fine delle illusioni

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C’è un erede della Nouvelle Vague che si aggira per le nostre sale cinematografiche in questi giorni. Una scheggia rediviva di quel cinema di parola - ça va sans dire ispirato a Éric Rohmer - che era anche, eminentemente, cinema sociale e politico.

Si tratta della pellicola “Alice e il sindaco” del regista Nicolas Pariser, considerato un campione della cinematografia politica francese, in cui viene messa in scena una storia eccentrica (ed eretica) rispetto alle consuetudini di sempre della politique politicienne, ma anche in confronto alle prassi più recenti della postpolitica.

C’è un sindaco a Lione - interpretato, al solito magistralmente, da Fabrice Luchini, e che assomiglia un po’ a Gérard Collomb, l’autentico primo cittadino della metropoli francese - in crisi nera. Un malessere politico che è anche esistenziale - e la coincidenza tra i due livelli risulta piuttosto significativa. Paul Théraneau è un politico socialista di lungo corso, in campo da oltre un trentennio, una figura esemplare - seppure positiva - di «elefante» (l’equivalente del nostro “dinosauro” per indicare i gerontocrati-baroni del mondo politico), e un notabile, radicato localmente e con un peso nazionale, secondo una tradizione di lunga durata che viene direttamente dalla Terza Repubblica. Ma, come dice sgomento e con lo sguardo perso, «non riesco più a pensare per niente». E dire che Théraneau era noto, oltre che per il sacro fuoco della politica che gli ardeva dentro, proprio per il suo pensiero lungo e creativo, grazie al quale si era fatto largo nel Partito socialista fino a diventarne uno degli esponenti di vertice.

E improvvisamente si ritrova con questo vuoto che lo affligge proprio quando sta meditando se candidarsi alle elezioni presidenziali. Ecco, allora, che per uscire dall’impasse gli viene in mente di convocare una giovane filosofa, Alice Heimann (Anaïs Demoustier), rientrata da Oxford; a sua volta un idealtipo, la personificazione di una generazione di giovani con molti studi ed esperienze all’estero sulle spalle, perennemente al confine tra flessibilità (e mobilità) lavorativa e precariato esistenziale.

E le chiede di «dargli idee», compito che Alice prende molto sul serio, generando gelosie e conflitti nello staff routinario e un po’ cinico del sindaco, e finendo protagonista di un memorabile scontro con il suo apparato comunicativo, la cui unica stella polare è quella di stare nel “flusso” delle notizie e di fare i titoli. Quella «comunicazione» che, ipostatizzata e convertita in una sorta di entità astratta, deve prevalere su tutto, a partire dai contenuti politico-programmatici, e gli esempi italiani si sprecano, specie nel vasto campo populsovranista, alquanto innovativo sotto il profilo delle trovate propagandistiche.

Il film, estremamente dialogato e parlato (come succede soltanto in una certa cinematografia francofona), ha qualche tono che si potrebbe far risalire al glorioso filone dei moralisti classici come Montaigne (che, infatti, ricorre qua e là nelle conversazioni dei protagonisti). E presenta anche un andamento favolistico - e molto rohmeriano, appunto; si potrebbe dire proprio a cominciare dalla richiesta del sindaco, che oggi appare assai “stramba” (e inusitata), ma ripropone le eterne “relazioni pericolose” tra il principe e il filosofo.

Con il primo, tuttavia, che nell’età postmoderna ha smesso anche di battagliare con il secondo perché, semplicemente, non sa cosa farsene. E, nel quotidiano teatrino della politica politicante ed elettoralistica, le citazioni dei vari Rousseau, Orwell e Illich (e altri), che Alice inserisce nei discorsi e negli appunti per Théraneau, rappresentano solo un fardello inutile (e, spesso, insostenibile poiché perfino incomprensibile da parte di interi settori della classe dirigente dei partiti).

Si trova parecchio dentro questa pellicola, assolutamente da vedere. Come la nitida istantanea della condizione generazionale dei trentenni profondamente sfiduciati nella politica corrente e nei suoi attori (e delusi, innanzitutto, dalla sinistra ufficiale presente “sul mercato”), ma in qualche modo desiderosi di trovare dei percorsi per partecipare alla dimensione collettiva e dare un proprio contributo. Una situazione che vale in Francia come nel resto dell’Occidente (Italia compresa, ovviamente).

Con il paradosso per cui è l’elefante del vecchio Ps che lamenta la perdita di quell’entusiasmo per la politica di cui i millennial che si affacciano alla vita pubblica non hanno mai potuto essere portatori. Una differenza che va perfettamente in scena - ennesimo (apparente) paradosso postmoderno, etichettabile come il «paradosso di Théraneau» - nella discussione tra il sindaco il quale rivendica il «diritto» della gauche a incarnare e promuovere il progresso (sociale, economico e culturale) e Alice che gli contrappone, all’insegna di un mix “obbligato” di realismo e disincanto, i vincoli ambientali e le inaggirabili compatibilità economiche che non danno più l’agibilità per cambiare le cose.

Una finzione narrativa che restituisce uno dei nuclei di fondo del dibattito in corso da settimane su queste pagine a proposito della reinvenzione della sinistra: l’intreccio fra l’emergenza (e la necessaria) transizione ecologica e l’esigenza di riconfigurare un riformismo con le riforme. Perché il «riformismo senza riforme», invece – che nel paesaggio politico italiano costituisce ormai una questione annosa, nata non casualmente negli anni Ottanta del craxismo (come Edmondo Berselli aveva già segnalato) – finisce per essere il migliore alleato (e motivatore) dei vari populismi dilagati in questo decennio. Se nulla cambia, un’opinione pubblica impaurita e sommersa di frustrazioni si converte in emozione pubblica, come avviene sempre più spesso nelle odierne democrazie emozionali e dell’audience. E negli Stati nervosi (come li ha definiti il sociologo britannico William Davies nel suo libro omonimo, uscito da Einaudi) se si salda la tenaglia tra neoliberismo e populismo non ce n’è più per nessuno. E, in primis, per i progressisti, i quali finiscono per pagare il prezzo salatissimo di quella che Théraneau in questo film - vero breviario della politica dell’età della fine delle illusioni - chiama l’«impotenza infinita».

Giustappunto della politica, dove debordano lo storytelling oppure la solitudine assoluta del potere, come quella di Emmanuel Macron, che avrebbe dovuto costruire una versione di neoprogressismo adeguata alla sfida populisovranista e, invece, sta incontrando moltissime difficoltà dopo l’insurrezione dei gilets gialli. E che sta vivendo una pesante crisi di consenso, a conferma di come il paradigma della Terza via funzioni nelle società affluenti che sperimentano forme di crescita della ricchezza – quelle, non a caso, in cui permane almeno una delle varianti del progresso (quello economico).

Ma non laddove aumenta la sofferenza sociale, a cui non sa dare una risposta adeguata; specialmente se, come nella drammatica fase attuale, si intreccia con una forma di disagio psichico collettivo (una miscela dirompente, e devastante, che ha trovato il suo emblema a livello di immaginario nella maschera di Joker).

Alla fine Alice e il sindaco convergono in un’ideale battaglia contro la finanziarizzazione neoliberista e le sue disuguaglianze, stabilendo una potenziale alleanza intergenerazionale. Ma si tratta di un vastissimo (e assai difficoltoso) programma. Il film, alla fine, è una fotografia molto suggestiva e riuscita dell’espropriazione della politica (e della spoliticizzazione), tra populismi e tecnocrazie. Ossia della fatica immane della ricerca di un’altra formula, che non può coincidere con qualcuna di quelle del «tempo perduto», come - per restare in una sala cinematografica - aveva già compreso profeticamente il François Mitterrand de Le passeggiate al Campo di Marte (2005) di Robert Guédiguian, quando annunciava l’impossibile resistenza (e, di fatto, il funerale) della sinistra novecentesca di fronte all’ascesa della globalizzazione.

Dal laboratorio francese - che inventò e universalizzò l’idea del progresso - ci arrivano ormai da tempo pensieri che proclamano la fine del politico. Compendiata nella stessa parabola dissolutiva del Partito socialista che, dopo la stagione del social-liberismo (la Terza via à la française), è finito dilaniato tra il macronismo e l’ultragauche neopopulista de La France Insoumise. Una traiettoria da cui viene una lezione anche per il nostro Paese: serve il software ideale e programmatico di un rinnovato liberalsocialismo, che deve essere capace di abitare senza disagio la condizione postmoderna. E ciò può avvenire solo recuperando e aggiornando un progetto illuministico di autentiche riforme sociali, e attrezzandosi con l’indispensabile coscienza ambientalista.

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