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«Quando la vita tornerà le chiederemo meno cose. E i nostri baci non saranno casuali»

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La tristezza che ci circonda ovunque. La socialità interrotta. Le famiglie chiuse in casa. La fatica di scrivere. Eppure la pandemia, spiega lo spagnolo Manuel Vilas, ci fa vedere con chiarezza quello che è più autentico. Per ripartire esattamente da lì

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Per la Giornata Mondiale della Poesia, il 21 marzo, lo scrittore spagnolo Manuel Vilas, Prix Fémina Etranger e un paio d’anni fa caso letterario nel suo Paese - con 14 edizioni in un anno - e in Italia, ha dedicato una poesia alla città di Roma, dove ha vissuto i primi giorni dell’epidemia: il testo, uscito in prima battuta su El Cultural, è stato pubblicato in apertura del numero di Pasqua dell'Espresso. E comincia da qui la conversazione con l’autore di “In tutto c’è stata bellezza” (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia) su scrivere, vivere, e guardare il mondo oggi, come tutti noi, da dietro un vetro e uno schermo, mentre una silenziosa predazione è in corso.

La parola
Roma
9/4/2020
Nei tuoi versi per Roma, scritti nei primi giorni dell’epidemia, rivendichi la tua “solitudine suprema”. Com’è nata questa poesia?
«Stavo trascorrendo un periodo a Roma, all’Accademia di Spagna, sul Gianicolo. L’8 marzo sono rientrato a Madrid, con l’intenzione di ritornare a Roma il 15 marzo, ma non è stato più possibile. Le compagnie aeree hanno cancellato i voli, e sono dovuto rimanere a Madrid. Sono innamorato di Roma, è una città che mi dà felicità, allegria. Ricordo il ristorantino di Trastevere, una tavola calda, dove mangiavo tutti i giorni, pasta e verdure. Quando la pandemia ha colpito il Nord Italia, ho potuto vedere come Roma, a poco a poco, si svuotava dei turisti. Di colpo, era diventata una città diversa. La mia poesia, “Roma”, parla di questo. Parlo dei giorni in cui ancora si poteva passeggiare per la città, ma i turisti già stavano disdicendo le vacanze che avevano prenotato, parlo dei primi giorni di marzo».

Hai dedicato altre poesie alle città: a Madrid - la città dove vivi e che è una delle più colpite dal Covid-19 - o a Barbastro, dove sei nato.
«Sì, ho scritto poesie anche per Madrid e per la mia città d’origine, Barbastro. Scrivo sempre delle città che visito. A Roma, però, ho dedicato un intero libro. È una città che mi affascina. Ci ho vissuto da solo, e la sensazione di solitudine era molto forte. Tutti i giorni facevo una passeggiata di quattro o cinque ore. Eravamo Roma e io, in una danza meravigliosa. Ho visitato anche la Puglia, sono stato a Bari, a Brindisi e a Lecce».

Come stai vivendo queste giornate di reclusione? Cosa fai per combattere la solitudine?
«Cerco di leggere, il più possibile».

Riesci a scrivere, del coronavirus o di altro, o ti senti paralizzato, come molti raccontano?
«Scrivere in questi giorni mi risulta molto difficile, perché sono sempre lì a guardare le notizie. C’è molta angoscia in Spagna, in questo momento. Madrid è una città in cui il coronavirus sta facendo centinaia di morti. E ora che avrei tutto il tempo del mondo per scrivere, in realtà non faccio altro che aspettare. Aspettare il ritorno alla vita. Mi sono reso conto di una cosa: non si può scrivere nel bel mezzo dell’orrore. Ci provo tutti i giorni, senza riuscirci. Per scrivere, la vita deve essere intera».

Nel tuo romanzo, “In tutto c’è stata bellezza”, hai parole quasi profetiche, parli di una “tristezza che camminava per tutto il pianeta ed entrava nelle società umane come fosse un virus”. La funzione della letteratura, in momento come questi, cambia, o rimane la stessa?
«Nel mio romanzo ho predetto che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere. In momenti come questi la funzione della letteratura cambia, perché la letteratura deve essere in relazione con il dolore delle persone, con la realtà che stiamo vivendo. Raccontare la vita, questa è la funzione della letteratura. E la vita, oggi, è la lotta contro il coronavirus. Abbiamo visto quanto siano fragili le nostre società. Spagna e Italia stanno soffrendo più di altri Paesi. Come scrittori, il nostro compito è testimoniare quello che accade intorno a noi, anche se non abbiamo parole adeguate, anche se le domande sono molte. La scienza ha i suoi limiti, non detiene un sapere assoluto. Ci aiuta, il modo in cui lo fa è di estrema importanza, e senza la scienza saremmo completamente perduti, ma il sapere scientifico non è assoluto».

Hai scritto: “Nessuno sa se si possa vivere se non socialmente”. Quanto incide il virus sulla struttura delle nostre società, in Paesi come l’Italia e la Spagna, così simili, socialmente così effervescenti?
«In “In tutto c’è stata bellezza” ho segnalato che la vita, così come la conosciamo, è vita sociale. Gli esseri umani hanno bisogno degli altri per sapere di essere vivi, e questo vale specialmente per le culture latine, come l’italiana e la spagnola. Le nostre culture sono una conversazione con la nostra famiglia, gli amici, la gente. In questo c’è una profonda differenza con gli abitanti del Nord Europa. Per noi parlare con la nostra famiglia, con nostra madre, i nostri figli, è una necessità. Il mio romanzo parla di questo. Provo una grande tristezza per quello che sta succedendo in Spagna e in Italia, e per la mancanza di comprensione da parte di molti Paesi dell’Unione Europea. Senza l’Italia, l’Europa non avrebbe senso, perché l’idea politica dell’Europa si basa sulla cultura, sulla civiltà. E vorrei che questa crisi sanitaria ci portasse a renderci conto, in Spagna e in Italia, che siamo fratelli. Penso che dovremmo camminare vicini, più di quanto non facciamo normalmente. È il momento di dare vita a un grande patto politico tra i Paesi del Sud Europa, un patto di cui Spagna e Italia devono essere i principali protagonisti. È molto importante rilanciare i legami tra la Spagna e l’Italia, due popoli con un grande cuore, fatti degli stessi sentimenti. Ho vissuto in Italia e in Italia mi sono sentito come in Spagna».

In concreto, cosa si potrebbe fare?
«Si potrebbe cominciare rilanciando la collaborazione culturale tra i due Paesi. Per esempio, con un grande incontro sulla letteratura italiana e spagnola contemporanea, con due sedi, Madrid e Roma, un anno in una città e uno nell’altra. Un grande convegno sulla Letteratura ispanoitaliana contemporanea».

In Italia si è molto utilizzata, e anche molto criticata, la metafora della “guerra al virus”. In quanto scrittore, ti sembra una narrazione attendibile di quello che sta succedendo? In alternativa, che metafora utilizzeresti?
«Dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, non abbiamo vissuto nulla di simile all’epidemia che è in corso. È chiaro che non si tratta di una guerra. Non ci sono bombe né fucilazioni né invasioni né eserciti che sparano. Ed è bene ricordare che le guerre sono peggiori delle epidemie. Non so quale possa essere la parola adeguata. Perché c’è qualcosa che mette i brividi nel fatto che il nostro nemico, il Covid-19, sia invisibile. C’è qualcosa di spaventoso nell’idea di non poter vedere il volto del nemico. Vorrei ricordare che qui, a ucciderci, è una malattia, non una guerra, non un esercito nemico composto di uomini armati. È bene precisarlo. E la nostra salvezza è negli ospedali, nei medici, negli infermieri e nelle infermiere. Ci siamo dovuti rendere conto di quanto sia importante avere un sistema sanitario robusto e potente. In Spagna pensavamo che il nostro sistema sanitario fosse tra i migliori del mondo, e oggi vediamo che non è così. Moltissimi operatori sanitari sono stati contagiati. Le mascherine sono arrivate tardi. E in altri Paesi sta succedendo esattamente la stessa cosa».

Il lutto è uno dei tuoi temi fondamentali.
«Nel mio romanzo parlo del lutto per la morte di mio padre e di mia madre. La loro morte ha cambiato la mia visione della vita. C’è stato dolore, ma anche una insperata ed enorme bellezza. E io continuo a parlare con i fantasmi di mio padre e di mia madre tutti i giorni. A volte, quasi mi rallegro del fatto che non abbiano dovuto vedere l’epidemia. Mia madre non ci si sarebbe raccapezzata. Avrebbe pensato che era tutta colpa del Presidente del Consiglio. A volte rido pensando a come avrebbe vissuto mia madre l’epidemia. Sarebbe stata una forma molto originale di affrontarla. Mi manca. Chiudo gli occhi in questo momento e vedo mia madre e mio padre, e mi commuovo. Mi sembra che siano ancora vivi. La sensazione è così forte che a volte mi viene da piangere».

Che differenza c’è tra un lutto privato e un lutto pubblico, la perdita collettiva che stiamo sperimentando tutti insieme?
«So che a Madrid le madri stanno morendo sole, senza la presenza dei figli, ed è terribile. In ciò che stiamo vivendo c’è una miseria morale. Auguriamoci che non accada mai più. Non so cosa abbiamo fatto per meritarci una cosa del genere. Forse è una maledizione della natura? Proprio non riesco a capire. Per questo, quello che faccio è ricordare mio padre e mia madre, aspettare che passi e che sia possibile ricominciare ad abbracciarci».

Il tuo libro tratta della famiglia e delle relazioni tra padri e figli. Come sono cambiate, come cambieranno queste relazioni?
«Potrà esserci molto di buono, credo. Dopo l’epidemia, le persone apprezzeranno di più le cose semplici, umili, come l’amore tra padri, madri, figli e figlie. Dopo la catastrofe, dovremo ricostruire la società, e la famiglia sarà l’elemento fondamentale. La famiglia, per definizione, non ti abbandona mai. Se ti trovi in stato di necessità, chiami la tua famiglia: tuo padre, tua madre, tuo fratello o tua sorella. La famiglia è la verità. La famiglia è l’unica patria che non ti abbandona in mezzo a una strada. Quando ho perso mio padre e mia madre me ne sono reso conto, ma era già tardi. Ho capito troppo tardi quanto sono importanti i padri e le madri. Che almeno l’epidemia serva a questo, a far sì che si faccia più attenzione all’amore per i propri genitori, per i propri figli».

Quale sarà, secondo te, la prima cosa che faremo quando saremo fuori dalle nostre case, quando potremo uscire di nuovo?
«Ora sappiamo che la vita è pranzare con un amico in un ristorante all’aperto. È girare per tutto il tempo che desideri per librerie. È prendere il sole, vedere un film al cinema, perderci in una stradina sconosciuta, salire su un treno, e partire. E per questo, quando la vita tornerà, le chiederemo meno cose, e tutto questo avrà molto più senso. E c’è un’altra cosa che accadrà, credo, quando l’epidemia finirà… Non ci daremo mai più baci casuali, così tanto per darli, baci di saluto. I baci - tutti - saranno grandi, forti, potenti, sexy e selvaggi».

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