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Cultura
giugno, 2020

Adam Tooze: «Attenti perché dopo il Covid rischia di arrivare il nuovo schianto»

È uno dei massimi storici dell'economia. Ha scritto l'analisi più completa della Grande recessione del 2008. Oggi accusa: non è tutta colpa del virus, dietro alla crisi che stiamo vivendo c'è di nuovo l'intreccio tra capitalismo e modernità

Adam Tooze è uno dei massimi storici dell’economia del mondo anglofono, soprattutto dopo la pubblicazione de “Lo Schianto” (“Crashed”, Mondadori, 2018) magnum opus e riferimento ormai imprescindibile per lo studio della crisi finanziaria del 2008. Insegna presso la Columbia University, dove dirige l’European Institute. Il libro al quale è attualmente impegnato riguarderà la crisi climatica. Dal lockdown newyorkese ha condiviso con L’Espresso alcune considerazioni sulla svolta virulenta della vicenda globale.

Come vede la colossale situazione in cui ci troviamo, da dove proviene e cosa ci riserva?
«Questa è la prima crisi economica comprensiva dell’Antropocene. Ha a che fare con un’intrusione dell’umanità in sistemi naturali che non sono soltanto fragili, ma altamente dinamici e reattivi. È dalla fine degli anni Ottanta che gli scienziati del clima mettono in guardia sui grandi rischi per la salute che corriamo, a cominciare dal panico per l’Hiv e per una potenziale epidemia di febbre suina dal 1976 e da allora regolarmente e con maggiore frequenza, avvertendo che avrebbero ucciso milioni di persone. Le loro previsioni sono accurate. E gli economisti ci hanno ammonito per anni che queste epidemie sarebbero costate trilioni. Pur essendo una minaccia antropogenica, non si tratta per nulla di un cigno nero, di un evento imprevedibile. Come con il surriscaldamento globale, ha a che vedere con i fondamenti dell’economia e all’intreccio fra capitalismo e modernità: ma laddove il primo è sistemico, questo è più accidentale e se per correggere il primo abbiamo dodici anni, qui abbiamo dodici giorni.

«Nei mercati finanziari non si riteneva che sarebbero stati i cambiamenti climatici a cambiare il sistema, ma le misure prese dai governi per evitarli, come con il nucleare, provocando il blocco degli investimenti nei combustibili fossili e un disastro finanziario. Non è il livello del mare che si alza in Bangladesh in sé - che non importa a nessuno - a creare il panico borsistico. Così, con la pandemia dobbiamo avere un’infrastruttura biomedica costantemente in allerta e capace di rispondere. Ci sono elementi della crisi del 2008 in tutto questo? Certo, come anche le tensioni geopolitiche fra Usa e Cina. Abbiamo gli anni Trenta e il 2008 avvolti in qualcosa di radicalmente nuovo e terribilmente rapido».

C’è un collegamento secondo lei fra il ritardo con cui, per definirle provocatoriamente, “società di supermercato” come Gran Bretagna e Stati Uniti hanno imposto i lockdown e la priorità culturale da queste riservata all’economia?
«Comprendo la logica della domanda ma non sono sicuro funzioni. È valida quando si guarda ai numeri di posti letto: entrambi hanno i numeri più bassi tra le economie avanzate, anche se l’America ha il massimo numero di respiratori. Ma sono scettico circa una spiegazione in quei termini. La Gran Bretagna ha esitato con la questione dell’immunità di gregge, misure prese anche dall’Olanda e dalla Svezia, poi ha cambiato idea. Certo, sono più d’accordo quando si considerino i rispettivi sistemi politici: quelli di entrambi sono danneggiati. Ma se si guarda alle classifiche di consapevolezza circa la sicurezza da rischio pandemico prima della crisi, gli Usa e il Regno Unito sono ai vertici perché predisposti a pensare alla sicurezza dal bioterrorismo. Diversamente dalla Spagna o l’Italia, sono Paesi con potenti apparati di sicurezza e hard power militare, e questo potrebbe essere stato un ostacolo anche positivo. Ma per ora mi astengo dal giudicare».
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In Italia si è parlato molto di Carl Schmitt e Michel Foucault dopo alcuni interventi molto critici di Giorgio Agamben nei confronti delle misure draconiane adottate dal governo che hanno suscitato roventi polemiche.
«Credo sia più puntuale l’analisi di Ulrich Beck. Penso che la diagnosi di modernizzazione riflessiva sua e di Luhmann prodotte negli anni Ottanta e Novanta siano più interessanti dell’uso di Foucault e Schmitt. Il paradigma del potere di tipo foucaultiano non è sufficientemente complesso per comprendere la situazione in cui ci troviamo, anche perché si riferisce al Settecento e al primo Ottocento. Anche se a New York non abbiamo vissuto il coprifuoco imposto all’Italia, di certo più autoritario e posso capire che alcuni se ne siano risentiti. Ma è leggibile anche con una visione keynesiana che è anch’essa in termini generali una teoria dell’eccezione. E farsene una ragione, tenendo conto che è un’emergenza e bisogna comportarsi di conseguenza. Il calcolo della vita e della morte e il controllo del modo in cui moriamo sopravanzano qualsiasi cosa. Il panico di una morte asfissiati in corsia, senza nessuno in grado di aiutarti...

«C’era qualcosa di così terrificante in quelle immagini che arrivavano da Bergamo sufficiente in sé a farci pensare: sai che ti dico, al lavoro non ci vado. Ho anzi la sensazione che il lockdown sia in realtà imposto dal basso. Non lo vedo come un trionfo dello Stato. Lo Stato totale schmittiano è polimorfico e policentrico, non ha la capacità effettiva di esercitare sovranità. E non sono sicuro che questa sia stata un’asserzione dello Stato amorfo che cerca di salvare chiunque. Quando Schmitt dice che è sovrana colei, o coloro, che dichiarano l’eccezione, non è esattamente la stessa cosa che dire che chiunque dichiari l’eccezione è sovrano. Ci vuole poco a dichiararla quando tutti te lo chiedono. L’eccezione non è certo la ratifica di qualcosa già decisa e praticata da tutti».

Si è anche riacutizzato il problema strutturale del progetto europeo, con l’amorfismo di un’unione fiscale senza quella politica. Dove sta andando l’Europa?
«È un matrimonio sempre più infelice, ma non credo ci si trovi nemmeno ora di fronte a una rottura. L’idea di uscirne è anche peggiore. Non si possono negare la sofferenza e la rabbia. Stiamo vivendo lo “scarring” (lett. cicatrice, inglese per isteresi, il perdurare nel futuro di effetti negativi, in questo caso quelli della crisi, ndr) e il dolore nevralgico del 2008, 2013 e 2015. Se i nordeuropei non capiscono che anche gli europei del Sud che non hanno sofferto alcun danno personale dovuto alla crisi dell’eurozona la considerano tuttavia quasi in termini di guerra civile come una sorta di disastro inflitto al Sud dal Nord, ebbene non capiscono la cosa più importante della politica europea attuale. Il Mes è velenoso politicamente perché associato alla troika. Capisco che in Italia i centristi mi accuseranno di parlare come Salvini, che è riuscito a far sembrare il Mes veleno. Dire: prenderò lo stesso il Mes perché se Salvini dice che è velenoso mi farà bene, potrebbe essere la scelta centrista legittima da fare secondo la logica il nemico del mio amico è mio amico. Ma politicamente è senza speranza».
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Il timore che l’Italia diventi la prossima Grecia è comunque diffuso.
«La Grecia è sempre stata la foglia di fico per l’Italia. La crisi dell’Eurozona nelle sue dimensioni serie ha sempre riguardato l’Italia, non la Grecia. Perché la Grecia non è sistemica, lo è l’Italia. L’Italia è “too big to fail” e anche troppo grande per essere salvata. Per questo non deve finire male. Il vero apice della crisi dell’Eurozona è il 2011 e l’estromissione di Berlusconi. La Grecia è meno del due per cento del Pil dell’Eurozona. Il problema è sempre stato l’Italia e lo è di nuovo, perché non era mai passato: si riacutizza ogni volta che c’è incertezza politica».

E lei prevede una radicalizzazione delle tensioni?
«Sì, e sta già succedendo. Credo che la Bce svolgerà un ruolo fondamentale di stabilizzazione. Gli italiani e i francesi sono in visibilio per la Bce, ed è la ragione per cui i conservatori tedeschi la considerano ostile. L’indipendenza della Bce finisce non appena questa non è più come i tedeschi pensavano dovesse essere. A questo si deve la decisione straordinaria ed essenziale (della Corte Costituzionale tedesca, ndr) per cui il governo tedesco e la Bundesbank debbano esercitare una sorta di ruolo di supervisione della Bce, che è l’antitesi di quello in cui i conservatori tedeschi dicono di credere. La Bce tiene in bilico la situazione italiana perché fin quando ne immagazzina il debito pubblico non c’è crisi immediata. Ma deve continuare a farlo. Io fantasticavo che i francesi avrebbero guidato una coalizione di nove governi dietro un programma di Coronabond, pena il default. Ma è fallita. Credo si vada incontro a una situazione di guerriglia».

Secondo lei potrebbe essere vista come una dialettica competitiva Stato/mercato, dove quest’ultimo ha riaffermato il suo controllo della vita umana attraverso la salute?
«Non credo sia convincente, mi suona come un cattivo liberalismo trasformato in una critica del liberalismo. I mercati e gli Stati sono complementari, Yin e Yang. Il mercato mondiale dei titoli, che è dominato dal debito sovrano dei Paesi ricchi e non può essere analizzato dal punto di vista di piccole nazioni subordinate, è auspicabilmente nelle tasche delle banche centrali, come in Giappone, dove è la Banca del Giappone che fissa il tasso dei titoli a dieci anni garantendo gli interessi capitali al meglio possibile. In questo caso fra Stato e mercato non c’è opposizione. Dai primi anni Novanta, raffinati esperti di policy pubblica ripetono che se si vuole la globalizzazione e non si vogliono soffrire catastrofi imprevedibili che costeranno molte vite e denaro, serve un apparato ben finanziato, una sanità pubblica globale. Finora è risultato impossibile. Assistiamo all’incapacità del capitalismo di assicurare le proprie condizioni di riproduzione».

Dagli spiriti animali a quelli virali?
«Questo mi piace già di più. Oppure, spiriti animali nel senso della ricerca della sopravvivenza, in senso quasi animalistico. In termini hegeliani non siamo padroni, siamo schiavi. Abbiamo tutti scelto la mera sopravvivenza. Restiamo a casa fin quando non ci stancheremo. L’Italia sta tornando al lavoro, l’America pure. Probabilmente andiamo incontro a una serie di ricadute».

Con una montagna di capitale fittizio per fronteggiare l’emergenza pandemica?
«In questo contesto trovo la nozione di capitale fittizio una volta tanto molto utile. Se in qualsiasi momento fossimo stati confusi sul fatto che le finanze fossero un problema fondamentale di organizzazione sociale ne siamo stati dissuasi. Quando ho scritto “Crashed” non volevo certo intendere che la crisi del sistema bancario fosse il problema fondamentale che aveva davanti l’umanità all’inizio del XXI secolo: era solo uno che esplose. E lo penso ancora. Gli ambienti finanziari ripetono di continuo che possiamo destreggiarci e la Fed può riparare tutto quello che vuole. La priorità è fare test e trovare un vaccino, e poi vedere che aspetto ha il futuro economico. Prima curiamo l’aspetto biomedico, la finanza è solo un problema giuridico. Sono solo dei pagherò scambiati ora che potrebbero avere valore fra qualche anno o meno. Naturalmente c’è la possibilità che diventi una questione dominante a livello politico per via della feticizzazione del debito. Ma abbiamo una risposta che è la banca centrale e l’abilità di disporne come prestatore e prestatario. E il denaro ultima spiaggia, che può semplicemente neutralizzare la questione debitoria per il prossimo futuro, se riusciamo a mobilitargli attorno la volontà politica. Per questo non mi piace e non credo alla “montagna di capitale fittizio”. Chiamiamoli richieste cartacee, che è fittizio tanto quanto la carta o una parola, che tanto fittizie non sono. Non è fittizio, è solo l’ambito simbolico del testuale, del formale. Insomma, possiamo stampare tutto il denaro che vogliamo».

Whatever it takes, la frase che definirà quest’epoca…
«Non è uno spettro terrificante che incombe. Penso al denaro come un facilitatore potenziale, l’immaginazione d’ingegneri monetari. Deve facilitare gli scienziati e i medici e gli organizzatori delle enormi campagne di vaccinazione e dei test di cui abbiamo bisogno. Fino adesso non sono stati d’intralcio ed è cosa buona. Dobbiamo mantenere l’ambito del formale, del monetario e del simbolico come facilitazione anziché ostruzione».

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