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L’Italia del dopoguerra e la vita inimitabile di Paolo Di Paolo nel film di Bruce Weber

Il fotografo statunitense rende omaggio alla visionarietà del collega italiano. Dal fotogiornalismo ai ritratti simbolo della cultura tricolore

Quando aveva appena quattro mesi il fotografo che visse tre volte rischiò seriamente di morire. Era gracile, anemico, malnutrito. I medici del suo paesino in Molise avevano perso ogni speranza quando uno di loro suggerì al padre l’estremo rimedio: il vino. Se avessero immerso quel lattante ogni giorno in una vasca di Primitivo o di Negroamaro, caldi, rossi, sanguigni vini di Puglia, il piccolo forse ce l’avrebbe fatta. E così fu. Stimolata dall’alcol nel giro di due o tre settimane la circolazione si riattivò, la salute riaffiorò sulle sue guance, il piccolo Paolo Di Paolo come per magia rifiorì.

 

Verità o leggenda, la storia si affaccia per bocca del leggendario fotoreporter, oggi 96enne, nell’appassionato cineritratto dedicatogli da un collega più che illustre, lo statunitense Bruce Weber, già autore di memorabili documentari dedicati a Chet Baker e a Robert Mitchum, in prima mondiale sabato 23 alla Festa del Cinema di Roma, “The Treasure of His Youth”. Un omaggio che prende le mosse dalla passione adolescenziale per l’Italia del giovane Weber e segue la lunga esistenza del fotografo che mezzo secolo fa avrebbe appeso la Leica al chiodo per essere riscoperto e celebrato solo di recente come testimone insostituibile di un “Mondo perduto”, per dirla col titolo della grande personale che gli dedicò il Maxxi di Roma nel 2019.

 

È un gioco di specchi in cui Weber, bulimico fotografo di moda nonché trasgressivo regista di videoclip, recita la parte del provinciale nato in Pennsylvania e folgorato giovanissimo dall’italian style; mentre a Di Paolo tocca il ruolo del gentiluomo che a poco più di quarant’anni, dopo aver fotografato l’Italia in lungo e in largo, e tutte le più grandi star dell’epoca (celebri i ritratti di Pasolini e di Anna Magnani), decide di smettere perché nel frattempo era cambiato il modo di fare giornalismo - e anche tutto il resto.

«Nel 1966 chiude Il Mondo, e poco dopo Tempo illustrato», racconta Di Paolo, due testate che sul fotogiornalismo avevano costruito la propria fortuna (vale la pena ricordare che fra il 1964 e il 1966, con 573 immagini in pagina, Di Paolo sarebbe stato il fotografo più pubblicato dal settimanale di Mario Pannunzio, fino all’ultimo numero nel 1966). «La televisione ormai bruciava ogni argomento e i giornali non volevano più il racconto per immagini, erano affamati solo di scoop», ricorda Di Paolo. Quando si sente dire «tu che sei così ben introdotto, portaci qualche foto piccante», capisce che un’epoca si è chiusa. Così la Leica e i suoi 250.000 scatti finiscono in cantina per essere ritrovati molti anni dopo, quasi per caso, da sua figlia Silvia, che dal padre era stata tenuta completamente all’oscuro. E da allora gestisce con amore quell’archivio inestimabile.

 

Il resto è noto ma il film di Bruce Weber, prima di testimoniare la terza vita di Paolo Di Paolo, di nuovo fotografo quasi per scherzo sul set di una sfilata di moda a Parigi, ci impone uno sguardo strabico e rivelatore, un po’ come il Volare cantato da Barry White che echeggia a metà percorso. Lo sguardo di un americano che tra gli anni Cinquanta e Sessanta, come milioni di persone nel mondo, scopre un’Italia ancora chiara e leggibile, autentica e insieme esportabile, attraverso le immagini folgoranti dei suoi grandi registi. In "The Treasure of His Youth” compaiono infatti foto e sequenze tratte da decine di film celebri, da Rossellini a Fellini, da Emmer a Bertolucci, da L’onorevole Angelina a Pelle di serpente, come dire la Magnani neorealista del dopoguerra e quella neodivistica della trasferta a Hollywood, anche se l’accoppiata con Marlon Brando nel film scritto da Tennessee Williams resta una delle più improbabili che il cinema ricordi. Del resto, poco importano i gusti. Per quanto risibile possa apparire oggi, l’effimera “carriera” americana della massima icona espressa dal Neorealismo congiunge in un unico flusso elementi ben distinti a uno sguardo italiano. Costringendoci a guardare con altri occhi anche le immagini elaborate in ogni angolo del nostro paese da Paolo Di Paolo. Di cosa parlavano quei bambini sorpresi sulla collina sopra San Pietro o gli operai in pausa davanti ai cancelli della Ferrari? Che immaginario costruivano quelle famiglie attonite davanti al mare, la signora avvolta in panni quasi ottocenteschi che incrocia un manovale a torso nudo sulle scale dell’Excelsior di Venezia, o il muratore sdraiato per un meritato riposo a incorniciare un Palaeur allora nuovo di zecca?

 

La coesistenza di arcaico e moderno, sofisticato e primordiale, bellezza e miseria, scandiva come un necessario contrappunto i film di Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. E rendeva intellegibile, anzi addirittura vendibile, la transizione dell’Italia da Arcadia premoderna a grande potenza industriale. Oltre che inesausta creatrice di bellezza nel cinema, nella moda, nel design. Massimo interprete di quel passaggio epocale, il fotografo venuto da Larino, paesino in provincia di Campobasso abbandonato per uno strano caso nel 1949 anticipando di 40 giorni esatti la nascita del “Mondo” di Pannunzio, con i suoi scatti geniali alimenta un’epica sommessa e intramontabile. Ma costruisce anche le premesse per la sua fine. 

 

È questa coerenza ad essere ammirevole. È il senso etico che traspare nelle sue fotografie («se la situazione non mi piaceva non scattavo»). È lo sgomento che lo coglie davanti a quel ragazzino ferito avvolto negli stracci che ancora oggi lo fa soffrire («una foto troppo facile») e che si decide a inquadrare solo quando il soggetto assume un’aria quasi di sfida. In una delle tante immagini che colgono un corpo prima che un volto, una postura prima che uno sguardo. Anche perché non era ancora giunta l’epoca in cui al fotoreporter si chiede anzitutto di testimoniare la disperazione e l’orrore, come ormai ci siamo rassegnati a pensare, mentre il mondo di tutti i giorni viene moltiplicato e insieme cancellato dalla facilità degli smartphone e dei social. O da quella specie di delega in bianco a rappresentare la bellezza che sembriamo aver affidato alla moda e alla finzione.

 

Anche qui a ben vedere si nasconde l’ideologia. Anche aver rinunciato a cercare il bello nell’ordinario non ha nulla di casuale né di innocente. Ma questo è il presente, e anche per questo è così emozionante l’incontro via zoom organizzato nel film tra Paolo Di Paolo e un fotografo forse meno celebre, l’italoamericano Tony Vaccaro, nato a Greensburg come Bruce Weber ma cresciuto in un paesino vicino Campobasso, come Di Paolo, e come lui quasi centenario, famoso per le foto scattate in Europa durante la guerra («con gli scarponi sul terreno, come Robert Capa»). Ma anche autore di grandi ritratti d’artista, da De Chirico a Picasso.

 

Come riassume Di Paolo: «Questo avevamo in comune Tony ed io. La gioia di tuffarci in un nuovo mondo. La certezza di aver compiuto una crescita spirituale. Anche perché portavamo entrambi nelle narici l’odore delle nostre case, se case si potevano chiamare, una sola stanza in cui si viveva in cinque o sei persone, con la capra, l’asino o il maiale. È stata la voglia di dimenticare tutto questo, di cancellare quelle immagini e diventare altro, ad averci guidato. Anche se naturalmente non ci siamo riusciti». E per fortuna, viene da dire.

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